Conoscevo Daniel da quando ero un ragazzo ed insieme andavamo ad uccidere i tramonti sulla collina più alta del paese. Quando lo vidi in quelle condizioni, la sera che mi recai da sua madre nella sua vecchia casa d’infanzia, quasi non lo riconobbi. Era completamente ricoperto di sudore, un liquido che emanava il fetore della follia, ed i suoi occhi si perdevano in idiote dimensioni, i peggiori incubi di una mente malata. Giaceva nel suo letto come una larva strisciante, un gomitolo di organi deturpati da un incomprensibile rivelazione.
Mi avvicinai al suo capezzale con parole facili ed ammalianti, ma lo sguardo che lui posò su di me era privo di significati. Mi guardava come se io fossi niente più che una piega dell’aria, un involucro vuoto. Certamente non vedeva in me il suo grande amico di un tempo.
Sua madre mi aveva raccontato quello che gli era successo, ma la conversazione avuta al telefono con la vecchia non mi aveva convinto molto. Sembrava che il bravo Daniel fosse coinvolto in qualche oscura storia di sette e di religioni, cose che un tempo il mio vecchio amico disprezzava. Ovviamente non le credevo, ma quando mi trovai davanti alla sua mente perduta, mi ricordai di quello che quella pazza di sua madre mi aveva detto al telefono. L’Ordine della Vuota Speranza, ecco come l’aveva chiamata quella strana setta alla quale da tempo il figlio dedicava tutte le sue energie. Ed il nome la diceva lunga.
Ad un tratto sembrò che gli occhi di quel misero essere che un tempo fumava segretamente insieme a me, sul passaggio sopra l’autostrada, intuissero la realtà di quel momento. Mi fissò e chiamò il mio nome, in un sussurro di pazzia, un lamento di una distorta creatura dalla vita breve ed immonda. Lo fissai, gli afferrai il braccio che mi porgeva e lo guardai in quelle orbite perdute nell’oblio. Mi sorrise e chiamò nuovamente il mio nome, e questa volta lo scandí come faceva un tempo, col sorriso che gli illuminava gli occhi. Ma fu solo un attimo, poi tornò lontano, dentro quelle assurde dimensioni.
Non ce la facevo più a reggere quella situazione. Volevo immediatamente delle risposte, volevo capire, dire qualcosa di utile ed uscire al più presto da quella casa. Assaporavo già la prossima sbornia, la notte che mi avrebbe colpito in faccia con le sue effimere illusioni. Adoravo quel materasso dove finivano tutte le mie notti, quella sensazione di finire un altro capitolo prima di addormentarmi. Tanto per continuare ad andare avanti.
Così lo spronai, gli chiesi cosa gli stesse succedendo, se riusciva a riconoscermi, dove era stato, e tante altre domande che forse non avrei mai dovuto chiedergli.
E lui mi parlò, in un maledetto attimo di lucidità rivelò il suo terribile segreto, una follia così incredibilmente credibile che avrebbe contorto la mente di chiunque. L’idea di questo suo Dio che è un mero spettatore delle nostre vite, un’entità bastarda del cosmo infinito ed orrendo, capitata per caso sulla nostra orbita, nelle nostre vite di perfette creature. Un Dio sadico che ci ha donato il potere della creatività, dell’evoluzione, solamente perché eravamo troppo noiosi quando ci mirò la prima volta. E mentre quella infima divinità se ne sta seduta a guardarci rotolare nel fango di ogni giorno, noi continuiamo a pensare che ci sia un qualcuno o un qualcosa di onnipotente che ci guida ed ispira. Come bambini aggrappati alla bugiarda promessa di un padre cattivo, continuiamo a credere nei nostri concetti di vita eterna, di divinità buona e clemente. Pensiamo a mondi perfetti al di là di questo, a vite che nascono e muoiono all’infinito. Cullandoci nel grande abbraccio di Madre Speranza, viviamo una vita fittizia, in cui l’unica realtà è quella di essere degli stupidi burattini per un entità contorta.
Questo mi disse quel mio amico di un tempo troppo lontano, prima che le sue vene si aprissero in un lago di sangue. Ma fu solamente un altro spettacolo per quell’assurda creatura che ci stava osservando.
Allora io pensai di andarmene, di fuggire l’inganno del mondo. E mi sedetti sotto un albero che mi proteggeva dalla pioggia insistente, dal sole che nei mesi caldi bruciava, e dalla chioma cadevano frutti, e a volte qualcuno passava di lì. Erano creature bellissime, donne con cui spendevo ore di amore, e i miei figli crebbero nell’idea che il sole nasceva per illuminare i frutti della terra, e che tutto era facile e semplice, come stringere un pugno di erba tra le mani. Bagnarsi le dita di rugiada.
I giorni passavano, le stagioni volavano, i colori cangianti mi raccontavano la storia del tempo. Non avevo bisogno di altro.
Presto mi accorsi che quel Dio si era annoiato dì me e se ne era andato alla ricerca di un altro mondo. Così risi e continuai a vivere in semplicità.
GM Willo 2002
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