sabato 28 agosto 2010

IL FARO


Quel sabato pomeriggio presi la macchina e andai al faro. Non sapevo che mi ero diretto laggiù fino a quando non lo vidi spuntare da dietro la collina. Gli eventi più recenti avevano innescato il pilota automatico, un sistema difensivo notevole se si pensa a quanta gente distratta circola per le strade oggigiorno. Ma col pilota automatico inserito puoi fare chilometri ad andatura lenta, con la radio in sottofondo che ti sputa addosso i vecchi pezzi di Sanremo, e star sicuro che non ti succederà niente. Parcheggiai, spensi il motore e rimasi fermo dentro l'abitacolo ad osservare il faro. Era la volta dei Matia Bazar, così lasciai finire la canzone per prendere tempo. Non avevo la minima idea di quello che avrei fatto.

Era finita? Non era finita? Chi poteva dirlo. Claudia mi aveva detto che non mi voleva più vedere, ma chissà che cosa voleva dire in realtà. Le donne parlano con la pancia, un linguaggio adatto a chi ascolta con il cuore, ed io per troppo tempo ho ascoltato solo con le mie orecchie. È più facile imparare che disimparare, cantava Paul Simon...

Al faro ci andammo la scorsa primavera. Fu bello perché c'era un vento terribile e sulla spiaggia eravamo solo noi e due ragazzi che cercavano inutilmente di far volare un'aquilone, ma con quel maestrale non c'era proprio verso. Lei si stringeva nel giacchetto di pelle mentre io mi facevo spettinare la chioma e annusavo il sale. Parlammo poco, ascoltammo il vento, poi andammo a prendere un caffè al bar del paese. “C'è un albergo nei dintorni?” domandai al barista. Lui m'indicò la strada per la statale e disse che ad appena dieci minuti c'era l'Hotel Faro, ovviamente. Passammo la notte laggiù, e il vento si trasformò in tempesta, e la tempesta ci fece amare più del solito.

I Matia Bazar lasciarono il posto a Ron. Mi decisi a spegnere la radio e fare due passi. Anche quel giorno c'era poca gente sulla spiaggia, benché si stesse bene al sole, ma era ormai novembre e la bella stagione era solo un ricordo. C'era anche il vento, ma era diverso, non come quello di qualche mese prima. Era un vento più freddo, più cattivo, il promemoria dell'inverno alle porte.

Mi accesi una sigaretta. Era la prima in un mese. Non che avessi smesso di fumare, è che io fumo così, quando mi va. A volte mi finisco un pacchetto in una sera e poi faccio passare una settimana prima di riaccenderne una. Non ho mai sofferto la dipendenza da nicotina. Non mi piace essere dipendente da qualcosa o da qualcuno. Forse era proprio per questo motivo che Claudia non voleva più vedermi.

Mi avvicinai al faro fino a una staccionata di legno che ne delimitava la proprietà. Mi ci appoggiai e finii la sigaretta. All'orizzonte un peschereccio seguiva lentamente una barca a vela. I gabbiani volteggiavano nel cielo in disegni random.
Perché sentiamo il bisogno di dare un significato ai luoghi? Forse perché li infestiamo con i nostri spettri... Il fantasma del mio amore per Claudia fluttuava dietro una feritoia del faro. Non mi girai a guardarlo, ma sapevo che era lì. Il cellulare vibrò nella tasca dei miei jeans avvertendomi di un sms. “Ti odio!” c'era scritto. Fu allora che capii. Poi le lacrime iniziarono a rigarmi le guance ed il vento non riuscì ad asciugarmele.

domenica 1 agosto 2010

IL RISVEGLIO



di GM Willo e Morgendurf

Dm-.à/&00kPr 2OProvòP=?rova Prova... ecco, forse ci siamo. Ci riesco. Riesco a formare i caratteri sullo schermo proiettando la mente fuori dal mio corpo. Non so come sia possibile, ma è esattamente così. Se mi state leggendo, sappiate che il mio nome è Libero Valenti, che sono in stato vegetativo da oltre quindici anni e che mi trovo nella mia stanza da letto in un appartamento alla periferia di Roma. Avevo trentasette anni quando un furgone della Iveco si dimenticò di darmi la precedenza e mi scaraventò insieme alla bicicletta sul freddo asfalto del marciapiede. La mia testa andò a colpire il lampione d'acciaio e le luci si spensero. Sono rimaste spente per quindici lunghi anni, ma se guardo indietro mi sembrano trascorsi solo alcuni frammenti di secondo. Ricordo benissimo le carezze del vento d'aprile sulla pelle, mentre pedalavo verso casa. All'epoca la mia famiglia abitava vicino al centro. Ne è passato di tempo, eppure mia moglie mi tiene ancora vicino, e i miei figli ormai grandi si affacciano ogni tanto dalla porta della mia camera, che per buona parte è invasa dagli strani macchinari che mi tengono in vita, e mi sorridono riconoscendomi a stento. Erano solo dei bambini all'epoca dell'incidente.
Ma non voglio divagare. Non so per quanto tempo mi sarà concesso questo dono. Credo anzi che questo mio parziale risveglio sia il segno della tanto agognata morte. Ma c'è un motivo se questi poteri sono venuti a me. Ho un destino da compiere, ed è anche quello di raccontarvi questa storia.
Le prime immagini mi sono arrivate tre giorni fa, o così credo. Difficile immaginarsi lo scorrere del tempo in questa mia condizione. Ma le scene che mi arrivavano provenivano dall'esterno, e dai primi flashback fino a adesso sono riuscito a contare due notti e tre giorni. Da quel momento, l'istante del mio bizzarro risveglio, le mie percezioni sono diventate più forti e precise. Il monitor alla mia destra non rileva alcuna attività celebrale, e la scatoletta dentro la quale sono rinchiuso è completamente fuori controllo. Non riesco neanche a muovere una palpebra. Eppure posso proiettare la mia vista fuori da questa stanza, addirittura oltre la finestra e fin dentro alle case dei vicini e al parco sei piani più sotto. Insieme alla vista sono riuscito ad affinare anche l'udito, e adesso sono addirittura capace di inviare degli impulsi al portatile di mia moglie, che giace acceso sul tavolo del salotto. Lei è uscita per delle commissioni e si è dimenticata di spegnerlo. Ma non ho molto tempo. Devo raccontare...
E non vi racconto di come sto qui disteso, quello lo sanno tutti, basta venire qui o leggere i giornali, ci sono state persone più famose di me che hanno passato quello che sto passando io e ne hanno parlato e sparlato, per cui tutti sapete come ci si possa trovare in questa situazione. Ma è una cosa strana, assurda, quella che mi è accaduta, e non voglio che nessuno lo sappia, perché farebbe di me un caso scientifico: mi trasferirebbero in un centro per studiarmi, scandagliarmi, provare su di me farmaci, non voglio che qualcuno strumentalizzi questa mia condizione per un suo tornaconto. Tutto sommato, mi trovo qui segregato da un tempo infinito, schiavo di tutto e di tutti per poter vivere, e adesso invece sono nella totale libertà di esprimermi come meglio credo, scevro da imposizioni e condizionamenti. In queste lunghe ore ho ascoltato i racconti di tutti, da quelli dei miei familiari, a quelli dei vicini di casa, del pizzicagnolo qui sotto, del farmacista all’angolo. Quello che dicono le donne da Bruno, il parrucchiere, farebbe venire i capelli dritti ai loro mariti, o forse glieli farebbero cadere, tanto, il resto, è già caduto, decaduto, decomposto. Incredibile, riesco anche ad essere ironico.
Ma quello che mi ha letteralmente spiazzato, al di là di ascoltare le voci, i suoni, i rumori, di sentire l’odore del ragù o delle verze in padella, è di riuscire anche a captare i pensieri delle persone. Ciò che ho scoperto è qualcosa di sorprendente, sconvolgente, a volte. Sono riuscito anche a sentire i pensieri di mia moglie. Oh, sì, mi vuole bene, come lo si vorrebbe ad un fratello, è una sorta di vedova bianca agli occhi di tutti, parenti, amici, condomini. Giusto ieri sera l’ho beccata che pensava a Guido. Chi è Guido?
Beh, il destino ha proprio il senso dell'umorismo...
Guido è il proprietario del furgoncino dell'Iveco, proprio quello che mi ha messo in questa situazione. Certo, il furgoncino non c'è l'ha più. Adesso viaggia su una Focus di seconda mano, non fa più il corriere ed ha aperto invece una piccola mesticheria, perché era il suo sogno. Gli affari non vanno benissimo ma a lui non importa, perché è una persona che si accontenta di poco. Come faccio a saperlo? Facile, viene da me ogni giorno, subito dopo aver chiuso il negozio, e in quindici anni non è mai mancato, se non quando stava davvero male. Si siede al bordo del letto, chiede a mia moglie di lasciare la stanza e mi racconta della sua giornata, che immagino sia più o meno sempre la stessa. In definitiva l'ho ascoltato solamente due volte, ovvero da quando mi sono risvegliato. Però so che è così, perché gliel'ho letto negli occhi o nella testa. Forse un tempo era il senso di colpa che lo portava a compiere questo rituale, ma dopo tutti questi anni ormai quello non esiste più. Le sue visite fanno semplicemente parte della sua compulsiva quotidianità. L'incidente lo ha reso più infermo di me. Si è escluso tutto nella vita, l'amore, il successo, il piacere, con la scusa della mesticheria. A volte la vita è proprio strana...
Talmente strana che chi mi stava per ammazzare, fa parte della mia vita, della mia famiglia. In effetti lui mi ha ucciso perché, se anche il mio cuore pulsa, io non sono vivo come lui, come tutti. La mia non è vita. Io non corro, non rido, non piango, non scopo. Proprio ieri sera ci pensavo, a quanto mi piaceva scopare. Vabbè, mi piacevano talmente tante cose che ora non faccio più, una più una meno, non mi cambia la vita. E dai, sempre questa parola che torna, che ricorre, che ripeto, che mi ripetono, che sento dire, che ascolto. Vita.
Comunque si è creata una situazione buffa, che ha qualcosa di grottesco. Guido, alla fine, diverrà mio consuocero. Già, perché sua figlia, fra qualche mese, si sposerà col maggiore dei miei. Ho anche scoperto che è incinta; lei ed io siamo gli unici a saperlo. Dai, non chiedetevi come è successo, conoscete già la risposta. Diventerò nonno.
Così la mia vita, interrotta tanti anni fa, continuerà, tramite mio figlio, con lei ed in lei. Ma sì, ha già deciso il nome, si chiamerà come me, ed è sicura che sarà un maschio. Quando l’ho saputo, mi sono gasato. Piccole soddisfazioni.
Guido, tutto sommato, è un brav’uomo. Il giorno dell’incidente la moglie gli aveva annunciato che lo avrebbe lasciato, per andare a vivere con un tizio, molto più vecchio di lui, ma pieno di soldi. Per non fargli sentire la solitudine, così gli disse, gli aveva lasciato anche i figli, un maschio ed una femmina. Quando gliel'ho letto dentro mi è venuta in mente solo una parola: troia, nel senso più spregiativo del termine. Era sconvolto: normale che non mi abbia visto in tempo, che non sia riuscito a frenare.
Strano, ma non riesco a provare né odio né rancore per Guido. Anche se mia moglie pensa a lui in termini non propriamente innocenti, diciamo così. Tra di loro non c’è nulla, questo è certo, ma anche se ci fosse non mi dispiacerebbe. E, se per assurdo, dopo un matrimonio ve ne fosse un altro? Pensate che bello, una famiglia allargata, tutti attorno a me, ad accudirmi, a coccolarmi.
Che stupido sono: se vi fosse un secondo matrimonio, io non potrei parteciparvi in alcun modo. Anche mia moglie è prigioniera, ma in maniera diversa; né del letto come me, né del senso di colpa come Guido. È prigioniera dei suoi principi. Non si concederebbe mai se mi sapesse ancora vivo. I principi sono una bella cosa, ma la gente pensa che debbano essere irremovibili, come le colonne di granito che sostengono gli antichi templi. Se ne rompi una crolla tutto. Invece il tempio dovrebbe essere qualcosa di mutevole, aperto ai cambiamenti.
Questo strano risveglio mi ha permesso di vedere le cose come stanno. La mia infermità è un ceppo che imprigiona molte vite. È arrivato il tempo di staccare la spina. Eh già, perché se riesco a mandare impulsi al computer per formare questi caratteri, dovrei anche essere capace di spegnere quella maledetta macchina che mi ronza accanto. Proviamoci, allora...
Un saluto a tutti, dal vostro amato Libero, di nome e presto anche di fatto.