sabato 28 novembre 2009

LA NEBULOSA DEL CANCRO

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Che cosa nasconde quel messaggio, quell’assurda accozzaglia di simboli, quel suono ipnotico sparato da una distanza di milioni di anni luce?
Ve lo dico io cosa nasconde… è la voce di Dio, quella. E sapete cosa ci sta dicendo? Che siamo proprio dei coglioni!!
Lasciatemi parlare! Siete voi i pazzi, e ve ne accorgerete presto!
Nessun decodificatore è stato in grado di darci delle risposte sensate. Nessun algoritmo è capace di spezzare l’enigma. Ma provate ad ascoltare e riascoltare quel suono, nell’oscurità della vostra camera da letto, da soli, immergendovi totalmente nel vibrato. Io l’ho fatto, ed è stata una rivelazione.
Quella è la voce di Dio e ci sta dicendo che stiamo sbagliando tutto! Ci sta parlando dalle sue magioni, oltre lo spazio compreso, oltre le luci ed i suoni, oltre i fulcri incandescenti delle galassie, oltre lo zero assoluto nei remoti angoli del cosmo. I nostri maledetti marchingegni non sono in grado di carpire il significato della sua grandezza, il sottile insinuarsi delle note alte, appena percepibili, il lento e cadenzante ritmo delle tonalità grevi.
So già che volete farmi fuori, che probabilmente questo sarà l’ultimo discorso pubblico che sarò in grado di fare, per questo sento il bisogno di appellarmi a quel briciolo di umanità che ci è rimasta; la vostra, la mia, e quella di tutti gli altri, facce spiritate che ci guardano da oltre il vetro magico. Stiamo sbagliando, gente. Dobbiamo tornare indietro. Dobbiamo ritrovare quello che abbiamo perduto.
Ascoltatemi! Domani io sarò solo un altro pazzo confinato alle periferie della civiltà. Avrò un altro nome, un nuovo lavoro, nuovi vicini. Non potrò rivelare la mia posizione né la mia vera identità. Non m’importa. Ma sappiate che tutti voi siete in grado di sentire quel messaggio.
Stanotte spengete le luci della vostra stanza e aprite la finestra. Guardate in alto, verso la Nebulosa del Cancro. Chiudete gli occhi ed ascoltate.
Dio vi parlerà, e vi sentirete come quando vostro padre vi beccava ad averne appena combinata una grossa. Ma, credetemi, questa volta non ve la caverete con una semplice sculacciata…

GM Willo 2009

mercoledì 18 novembre 2009

UN CONCETTO DI DIO

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Conoscevo Daniel da quando ero un ragazzo ed insieme andavamo ad uccidere i tramonti sulla collina più alta del paese. Quando lo vidi in quelle condizioni, la sera che mi recai da sua madre nella sua vecchia casa d’infanzia, quasi non lo riconobbi. Era completamente ricoperto di sudore, un liquido che emanava il fetore della follia, ed i suoi occhi si perdevano in idiote dimensioni, i peggiori incubi di una mente malata. Giaceva nel suo letto come una larva strisciante, un gomitolo di organi deturpati da un incomprensibile rivelazione.
Mi avvicinai al suo capezzale con parole facili ed ammalianti, ma lo sguardo che lui posò su di me era privo di significati. Mi guardava come se io fossi niente più che una piega dell’aria, un involucro vuoto. Certamente non vedeva in me il suo grande amico di un tempo.
Sua madre mi aveva raccontato quello che gli era successo, ma la conversazione avuta al telefono con la vecchia non mi aveva convinto molto. Sembrava che il bravo Daniel fosse coinvolto in qualche oscura storia di sette e di religioni, cose che un tempo il mio vecchio amico disprezzava. Ovviamente non le credevo, ma quando mi trovai davanti alla sua mente perduta, mi ricordai di quello che quella pazza di sua madre mi aveva detto al telefono. L’Ordine della Vuota Speranza, ecco come l’aveva chiamata quella strana setta alla quale da tempo il figlio dedicava tutte le sue energie. Ed il nome la diceva lunga.
Ad un tratto sembrò che gli occhi di quel misero essere che un tempo fumava segretamente insieme a me, sul passaggio sopra l’autostrada, intuissero la realtà di quel momento. Mi fissò e chiamò il mio nome, in un sussurro di pazzia, un lamento di una distorta creatura dalla vita breve ed immonda. Lo fissai, gli afferrai il braccio che mi porgeva e lo guardai in quelle orbite perdute nell’oblio. Mi sorrise e chiamò nuovamente il mio nome, e questa volta lo scandí come faceva un tempo, col sorriso che gli illuminava gli occhi. Ma fu solo un attimo, poi tornò lontano, dentro quelle assurde dimensioni.
Non ce la facevo più a reggere quella situazione. Volevo immediatamente delle risposte, volevo capire, dire qualcosa di utile ed uscire al più presto da quella casa. Assaporavo già la prossima sbornia, la notte che mi avrebbe colpito in faccia con le sue effimere illusioni. Adoravo quel materasso dove finivano tutte le mie notti, quella sensazione di finire un altro capitolo prima di addormentarmi. Tanto per continuare ad andare avanti.
Così lo spronai, gli chiesi cosa gli stesse succedendo, se riusciva a riconoscermi, dove era stato, e tante altre domande che forse non avrei mai dovuto chiedergli.
E lui mi parlò, in un maledetto attimo di lucidità rivelò il suo terribile segreto, una follia così incredibilmente credibile che avrebbe contorto la mente di chiunque. L’idea di questo suo Dio che è un mero spettatore delle nostre vite, un’entità bastarda del cosmo infinito ed orrendo, capitata per caso sulla nostra orbita, nelle nostre vite di perfette creature. Un Dio sadico che ci ha donato il potere della creatività, dell’evoluzione, solamente perché eravamo troppo noiosi quando ci mirò la prima volta. E mentre quella infima divinità se ne sta seduta a guardarci rotolare nel fango di ogni giorno, noi continuiamo a pensare che ci sia un qualcuno o un qualcosa di onnipotente che ci guida ed ispira. Come bambini aggrappati alla bugiarda promessa di un padre cattivo, continuiamo a credere nei nostri concetti di vita eterna, di divinità buona e clemente. Pensiamo a mondi perfetti al di là di questo, a vite che nascono e muoiono all’infinito. Cullandoci nel grande abbraccio di Madre Speranza, viviamo una vita fittizia, in cui l’unica realtà è quella di essere degli stupidi burattini per un entità contorta.
Questo mi disse quel mio amico di un tempo troppo lontano, prima che le sue vene si aprissero in un lago di sangue. Ma fu solamente un altro spettacolo per quell’assurda creatura che ci stava osservando.
Allora io pensai di andarmene, di fuggire l’inganno del mondo. E mi sedetti sotto un albero che mi proteggeva dalla pioggia insistente, dal sole che nei mesi caldi bruciava, e dalla chioma cadevano frutti, e a volte qualcuno passava di lì. Erano creature bellissime, donne con cui spendevo ore di amore, e i miei figli crebbero nell’idea che il sole nasceva per illuminare i frutti della terra, e che tutto era facile e semplice, come stringere un pugno di erba tra le mani. Bagnarsi le dita di rugiada.
I giorni passavano, le stagioni volavano, i colori cangianti mi raccontavano la storia del tempo. Non avevo bisogno di altro.
Presto mi accorsi che quel Dio si era annoiato dì me e se ne era andato alla ricerca di un altro mondo. Così risi e continuai a vivere in semplicità.

GM Willo 2002

sabato 7 novembre 2009

L'ULTIMA CICCA

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«Che diavolo sei venuto a fare qui se non abbiamo più niente da dirci?»
«Lo sai che non sono venuto qui per parlare.»
Lo vidi frugare nervosamente nelle troppe tasche del giaccone imbottito, fino a quando un accenno di sorriso sancì il successo della sua ricerca.
Un rapido movimento ed il bagliore della fiamma illuminò quello che in passato era stato il nostro unico rifugio. Anche qui il tempo aveva lasciato segni incancellabili come quelli sui nostri volti.
Poco prima, nella penombra, si era annidato il sospetto che quei lunghi anni non fossero mai passati; la polvere e un colpo di tosse proveniente dall’altra stanza ci richiamarono bruscamente al presente.
«Passami la cicca» gli chiesi. E lui me la offrì, come aveva fatto mille volte prima, in un tempo magico ma ormai perduto. Sulle labbra sentii il suo sapore, mischiato a quello del filtro e della nicotina. Bastardo, pensai. Potevamo realizzare in nostri sogni, fare quello che abbiamo sempre sognato, ed invece…
«Come sta?» mi domandò. E che cazzo gliene fregava a lui! Vedova a trentacinque anni, con due bambini piccoli. Ecco che cosa rimaneva di me.
«Non lo senti? Sta morendo…» gli dissi. E aspirai forte quella dannata cicca, cercando di farmi venire un tumore fulminante. Quanto lo odiavo. Quanto lo desideravo!
«Senti, volevo dirti soltanto che mi dispiace…»
«Si, lo so…» e intanto pensavo “che stronzo! Scordati la cicca, perché non te la rendo!”.
«Comunque, grazie di essere passato. Adesso devo tornare da lui…»
«Certo. Se hai bisogno di qualcosa, non esitare…»
Esistono forze nascoste che ti permettono di fare cose impensabili. Attinsi a quelle per evitare di piangere, per non dargli anche quella soddisfazione.
«Va bene…»
«Ciao…»
«Ciao!»
Lo osservai salire in auto e tornare verso la città. La sigaretta era arrivata alla fine. Aspirai forte i suoi ultimi millimetri di tabacco e poi la gettai il più lontano possibile.
Fu la mia ultima cicca.

AUTORI: GM Willo, Gherardo, Ciccius, Lacate, Marcochao

martedì 27 ottobre 2009

YOAK

yoak

Le notti si facevano più fredde, e ciò era un bene e un male per Yoak. La sua vita sarebbe stata più dura, ma anche più breve. In ogni caso alla fine tutto sarebbe andato per il meglio, ne era sicuro.
Il cielo prometteva pioggia, ma non per questo i bar sarebbero rimasti chiusi. Lui se ne stava tranquillo a fumarsi la sua prima sigaretta della giornata, disteso sul divano del suo ultimo amico, troppo demotivato per spingersi fino alla cucina per il caffè. Il suo unico impegno consisteva nel cullare i suoi prospetti alcolici quotidiani e progettare la fine degli ultimi legami che lo tenevano unito al mondo. Niente di più facile, se non avevi più nulla da perdere ….
…e Yoak non possedeva più niente.
Afferrò distrattamente il giornale sul pavimento, ma non ci pensò neanche a leggerlo. Eppure riusciva a percepire distrattamente gli articoli in grassetto, notizie che lo facevano sbellicare e sentire ancora più forte e convinto. La sua fine era vicina.
Dopo un tempo indeterminabile raggiunse la doccia, lasciando il caos dietro di se e sapendo di provocare l’ira del suo ultimo ormai non più amico. Poi uscì di casa.
Era libero, questo lo sapeva, ma sentirlo ogni nuovo giorno nelle narici che si aprivano al vento era sempre qualcosa di diverso. Aveva bisogno di autocontrollo per non sbandare; delineava la sua meta prima di incamminarsi.
Yoak aveva deciso di andarsene e nessuno cercava più dì fermarlo. Egli aveva fatto parte di un meccanismo perfetto che gli altri chiamavano vita, e per un po’ si era
convinto che tutto procedeva come doveva procedere. Poi un giorno alzandosi si era visto
capovolto, con i piedi poggiati al soffitto e la bocca che parlava una bizzarra lingua
contraria con frasi tipo “atset id lam ehc ioh”, e il tempo che scorreva o troppo veloce o troppo lentamente. Forse aveva visto finalmente come stavano le cose, o forse aveva dei grossi problemi…..
…comunque aveva deciso dì finirla
Non era servito neanche chiedere aiuto agli amici. Quest’ultimi battevano strade diverse in quel periodo; non potevano capire.
Fuori dal mondo e prigioniero di questo, ecco il nostro eroe, Yoak.
Quel giorno lasciò la casa del suo migliore amico per bersi l’intero pomeriggio e la sera che ne seguì. Nessuna parola fece deviare il suo corso.
Il suo palato accettava solo un alfabeto, la sua ragione era stimolata solo dalle poche cose in cui credeva.
Yoak non era mai stato parte di questo mondo e non lo sarebbe mai stato.
Alla fine ci regalò a tutti un tenero “addio”.

GM Willo - Ottobre 2000

lunedì 19 ottobre 2009

IL CUORE DELLA LUCERTOLA

«Ciao, come stai?»
E come cazzo dovrei stare, mi andrebbe di dirle. Invece rispondo “bene”, e sorrido pure. Non mi va di darle vantaggi. Ai suoi occhi voglio apparire forte, anche se dentro sono a pezzi, come se il cuore me l’avessero gettato nel tritacarne. Stronza! Sei anni insieme, e una mattina si sveglia e mi dice “non ti amo più!” Ma che cazzo vuol dire?!
«Ci sei domani? Se non disturbo verrei a prendere le ultime cose…»
Certo che disturbi. Disturbi ogni singolo minuto della mia giornata, perché non riesco a non pensare a te. Non dormo, non mangio, non posso neanche ad andare a lavoro senza che l’immagine del tuo volto venga ad ossessionarmi. Sei un virus, ecco cosa sei!
«No, ci mancherebbe. Vieni pure.»
Magari parliamo un po’, mi verrebbe da aggiungere. Ma abbiamo anche parlato troppo. E quando si parla troppo, non c’è più niente da dire. Ci sono i ricordi, che a me sembrano bellissimi e a lei non fanno il minimo effetto. Ci sono i rancori, e quelli lei li ricorda benissimo, mentre io me li sono già dimenticati. E poi ci sono i momenti d’indifferenza, e quelli sono la vera ragione per la quale lei verrà a prendersi le sue dannate ultime cose.
«Come va a lavoro?»
Ma che cazzo te ne frega! Non ti è mai interessato quello che faccio. Eh certo, perché prima t’interessavo io, adesso invece t’interessa solo rimanere amica, riprenderti le tue cose e non fare più scenate. Vuoi la dissolvenza, la chiusura col sorriso, il finale di Hollywood, i titoli di coda con i ringraziamenti, così poi ti potrai buttare a capofitto nel tuo prossimo film, senza sensi di colpa…
«Bene. Marzo è stato un buon mese…»
«Sono contenta. E poi distrarsi fa bene, non trovi?»
Questa te la potevi risparmiare, stronza! Chi vedi adesso? Ci dev’essere qualcuno, lo so. C’è sempre qualcuno, quando si cambia in questa maniera. Un po’ stronza lo sei sempre stata, ma mai così. Chi è? Un collega? Uno che hai incontrato in palestra? Uno che t’inforca dopo lo spinning?
«Si. Cerco di non pensarci, sai com’é…»
Patetico. No, non fare il patetico adesso. Ce l’hai quasi fatta. Tra poco arriva il bus, la saluti e te ne vai. Non tornare sull’argomento, altrimenti sei fregato…
«Vedi qualcuno?»
Ma perché non te ne stai un po’ zitta, troia! Si, vedo te, tutti i giorni, nella mia testa, ti guardo chiudendo gli occhi, vedo i tuoi capelli sparsi sul cuscino, le tue labbra che mi accarezzano, la tua lingua che gioca. Vedo sempre e solo te, capito… stronza!
«No, solo i miei amici, ogni tanto. Domenica andiamo a pescare.»
«Dove?»
«In montagna…»
«Bello…»
Ma che fine hai fatto autobus di merda! Sei in ritardo di sette minuti. Vuoi vedere che la corsa è saltata. Se è così mi tocca a farmi torturare per un altro quarto d’ora.
«Sai, io vedo qualcuno… Volevo dirtelo, perché mi piace essere sincera.»
Che sorpresa! Ma davvero?
«Sai che ci tengo alla nostra amicizia…»
«E se ti spingessi sotto l’autobus, che ne diresti?»
Troppo tardi. La frase mi esce senza pensarci. Perché sapete, a volte la linea che divide l’immaginazione con la realtà è talmente sottile…
Lei strabuzza gli occhi, rimane in silenzio, forse ha anche un po’ di paura. In quell’istante la vedo sotto una nuova luce, vulnerabile e stronza. Qualcosa ricomincia a battere dentro il petto. Il cuore è un muscolo strano. È come la coda delle lucertole. Lo puoi buttare nel tritacarne, ma quello ricresce, e torna a pulsare, più forte di prima.
«Guarda, quello è il tuo autobus. Ti aspetto domani per la roba. Ciao…»
Lei risponde con un timido ciao, sale sull’autobus e si dilegua.
La verità, specialmente la più crudele, può fare miracoli!

GM Willo 2009

mercoledì 14 ottobre 2009

L'ISOLA DEI RICORDI


Nel mare si perdono i ricordi. Quelli più belli vengono subito trascinati al largo dalle correnti. Poi si depositano sui fondali, a fare compagnia alle razze e ai cavallucci marini.
Un dio mi disse che se avessi saputo trovare il posto giusto, avrei potuto ripescarli. Tutto quello di cui avevo bisogno era una canna da pesca ed una buona esca.
Così m’imbarcai sul peschereccio di capitano Arsella, un tipo davvero strano. La sua ciurma era la più ubriaca del porto. Prima di prendere il mare i marinai facevano un triplo giro di Grog, e alla fine di ogni turno spettava a tutti una razione extra. Per questo motivo il peschereccio di capitano Arsella era quello che si spingeva più a largo, ed io volevo proprio andare il più lontano possibile, laggiù dove dimorano i ricordi più belli.
Ma a quel vecchio burlone che siede sul bagnasciuga dell’universo, non manca certo il senso del buonumore. Gli venne in mente di mandarci addosso una tempesta coi controfiocchi.
L’equilibrio precario della ciurma, dovuto allo smodato uso di alcolici, compensava il movimento delle onde. Perciò procedevamo dritti come fusi, mentre le alte onde ci sovrastavano.
Nonostante il nostro bell’andare, il timoniere non poté evitare l’iceberg. Non riuscì neanche a capire se fosse solamente uno. Infatti in principio urlò che erano due, e poi ne vide addirittura tre. Ma vi posso assicurare che fu solo uno l’iceberg che ci colpì.
L’impatto distrusse completamente il peschereccio, ed io mi ritrovai ad annaspare nel gelido mare come una gattina spaurita. Intravidi il capitano Arsella avvinghiato all’ultima botte di rum, e parte della ciurma che si dimenava nell’acqua cercando di raggiungerlo. Poi riuscii ad afferrare un pezzo dell’albero maestro e a tirarmi fuori dall’acqua.
Come sono strane le correnti… A volte sottostanno a strani disegni. Da una parte i marinai, issatisi su una scialuppa di salvataggio, vennero trasportati nella direzione dalla quale eravamo arrivati. Io invece venni trascinata dalla parte opposta.
Sarei sicuramente finita assiderata se non ci fosse stato quel piccolo isolotto. Già, perché circondati da quel buio pesto (mi ero dimenticata di dirvi che era notte!), nessuno si era accorto che lì vicino spuntava dal mare una piccola striscia di terra. Le onde mi trascinarono sulla sua riva ghiaiosa e, arrancando nell’oscurità, riuscii a trovare un riparo; una grotta. Trascorsi una notte umida e fredda, ma il mattino dopo il sole splendeva bello, e i miei vestiti si asciugarono subito.
Decisi di esplorare l’isola, ma non c’era molto da scoprire. Era poco più di uno scoglio in mezzo al mare, sul quale crescevano solo delle sterpaglie pungenti. Incominciai a disperare. Non avevo neanche la mia canna da pesca, quella che mi ero portata dietro per catturare qualche bel ricordo.
Ma all’improvviso vidi un gabbiano posarsi su uno scoglio vicino a me. Mi disse: «Che ci fai tu qui?»
Io lo guardai meravigliata. Toh, un gabbiano parlante!
«Ma tu parli?» gli dissi.
«Perché, non si può?» e mi venne da ridere…
«Da dove vieni?» mi domandò l’uccello.
«Sono una naufraga. Ero sul peschereccio di capitano Arsella. Lo conosci?»
«Certo! Un vecchio briccone, mi deve ancora sedici pezzo d’argento. Ma io so come fargli saldare il debito…»
«Come?»
«Quando i marinai sono sbronzi, atterro vicino alle reti e mi abbuffo di merluzzini.»
« E perché ti deve sedici pezzi d’argento?»
«Ah, è una lunga storia, e non ha molto a che fare con questa. Perciò pensiamo a non annoiare i lettori e andiamo avanti.»
«Giusto!»
«Vuoi sapere perché riesci a parlare con un gabbiano? Beh, o sei annegata insieme ai marinai di capitano Arsella (ma sono sicuro che lui è riuscito a salvarsi perché, come ti ho detto, è per davvero un vecchio briccone, e ne sa una più del diavolo!) e adesso appartieni a una storia in cui i gabbiani parlano, oppure sei arrivata sull’isola dei ricordi.»
«E tu cosa pensi?» domandai confusa.
«Beh, tutte e due le cose! Sei annegata e hai raggiunto l’isola dei ricordi.»
«No, non posso essere annegata, altrimenti non potrei scrivere la storia che sto scrivendo.»
A questo punto il gabbiano si fece perplesso. Guardò un attimo verso l’orizzonte, distratto da alcuni pescetti volanti.
«Mi spiace, ma è l’ora della colazione. Devo andare.»
«Ma non puoi lasciarmi così!» gli gridai, mentre dispiegava le ali e prendeva il volo.
Ero di nuovo sola e ancora più avvilita che mai. Non mi piaceva l’idea di essere annegata. No, non mi andava proprio per niente.
Tornai alla spiaggia di ghiaia, praticamente a qualche metro da dove il gabbiano aveva spiccato il volo. Tengo a precisare che l’isola non era più grande di un piazzetta di paese. A parte quei dieci metri di riva sulla quale ero naufragata, era circondata da scogli. La grotta dove avevo passato la notte non era altro che una rientranza di un scoglio più grande.
Mi sedetti su quel tappeto di sassolini ed incomincia a gettarli uno ad uno nel mare. Ploc, ploc, ploc…
Fu così che i ricordi cominciarono ad arrivare.
Trasportati dalle onde, vidi mia madre e mio fratello, nel giorno del suo quarto compleanno. La giostra con i cavalli bianchi e lo zucchero filato. Il gatto della vicina di casa che aveva fatto i cuccioli, undici piccini un po’ grigi, un po’ neri e uno rosso.
Venne un’altra onda. Era il ricordo di mio nonno, quando mi portava fuori in barca a pescare. Tornavamo al tramonto, e ci fermavamo ogni volta sugli scogli a guardare il sole fermo sopra l’orizzonte. Lui mi diceva: “Vedi tesoro, quello è l’occhio di dio!”
Poi ricordai mio padre, che mi abbracciava forte. Il treno fischiava, la mamma piangeva, e c’era un gran via vai di gente. Partiva per la guerra, ma era un viaggio di sola andata.
«Perché piangi?»
Era tornato il gabbiano e si era appollaiato accanto a me. Nel becco stringeva un pesciolino che si dimenava forsennatamente.
«Piango perché ricordo… Finalmente!» risposi.
Allora il gabbiano divenne mio padre. Era sempre stato mio padre.
«Si è davvero salvato capitano Arsella?» gli chiesi.
«Si tesoro. Sopra quella botte di rum…»
Ed insieme ridemmo fino a quando il sole si spense.

Aeribella Lastelle - 2008

giovedì 8 ottobre 2009

L'EVOLUZIONE DEL CIGNO

«Prima volta?»
«Si vede?»
«Beh, col passare dei secoli ho allenato l’occhio.»
«Secoli, dici? A quale cerchio appartieni?»
«Ventitreesimo, la quinta volta nella forma di cigno. Un bel vivere, dopotutto…»
«In effetti… Si ha tutto il tempo che si vuole per accordarsi con la Sinfonia.»
«Assolutamente! Vedrai, ne rimarrai sorpreso…»
«Quindi mi aspettano almeno altre quattro esistenze di questo tipo….»
«Dipende… Potresti accelerare i tempi, e diventare farfalla.»
«Parli del venticinquesimo cerchio, vero? Cosa c’è oltre?»
«Chi può dirlo… Le stelle, forse…»
Un uomo scattò una fotografia dal bordo della vasca.
«Ti ricordi quando eravamo uomini?»
«Quanto eravamo primitivi…»
«Eh già!»

domenica 4 ottobre 2009

CONDIVIDERE É REATO

Ci sono sogni che vanno raccontati, perché altrimenti poi ci si dimenticano ed è proprio un peccato, non so se mi spiego. Cioè, questa cosa me l’ha detta un mio amico, il Cantini, un soggetto che vi raccomando. Ma a parte questo, forse c’aveva proprio ragione. I sogni fanno in fretta a scomparire dalla capoccia. A volte manco mi ricordo quello che ho mangiato a colazione.
Invece questo m’è rimasto proprio impresso, tanto che gli dissi al Cantini che poteva andare tranquillo perché me ne sarei sicuramente ricordato. Ma lui mi guardò con quei suoi due occhi da merluzzo, e fiatandomi una boccata di Tavernello in faccia mi disse: «Non ti fidare… scrivili sempre i sogni importanti. Non lo sai che siamo tutti un po’ profeti?»
E allora eccomi qui davanti a questo dannato foglio. Era dai tempi del liceo che non mettevo dieci righe una sotto l’altra, cioè righe nel senso scritte… vabbè, non ci confondiamo adesso.
Insomma, inizia il sogno che sono dietro allo scooter del Testa, un vecchio amico. Testa perché ovviamente c’ha una testa che se te la ritrovi davanti al cinema fai prima a andare a casa vederti i pacchi.
«Oh Testa, vai piano!» gli urlo da dietro. Lui fa finta di nulla e sorpassa il quattordici, quello doppio, che passa proprio a pelo sulla corsia. Dalla parte opposta arriva un furgoncino bianco Iveco. BANG! Le luci si spengono.
Mi risveglio (ma sto sempre sognando) in un letto d’ospedale. Tubi, tubicini, macchine, flebo, un monte di stronzate, e accanto a me c’è il Testa, sempre lui. Eppure è diverso, me ne accorgo subito. Sembra più vecchio.
«Oh Testa! Che cavolo è successo!»
Lui si scuote perché non si era accorto che mi ero svegliato, poi mi guarda come se fossi un fantasma.
«Sei sveglio!» borbotta.
«Certo, e allora. Perché fai quella faccia?» domando io, e intanto mi accorgo che sembra davvero molto più vecchio.
«Perché sono vent’anni che dormi! Eri in coma. Ti ricordi l’incidente?»
Ecco spiegato tutto, mi dico. Insomma, mi ero giocato vent’anni di vita. Che sfiga, chissà quante scopate mi ero perso, per non parlare delle partite della Viola.
Comunque il sogno si velocizza. Dico al Testa di portarmi i vestiti che voglio fare un giro. Lui mi da una mano a prepararmi, e dieci minuti più tardi siamo già in strada.
«Dammi una sigaretta, vai!» gli chiedo.
«Non posso» risponde lui.
«Che hai smesso?»
«No, è che le cose sono un po’ cambiate… dopo ti spiego.»
Io rimango basito ma continuiamo a camminare. Arriviamo alla stazione dei taxi.
«Facciamo un salto da te?» gli chiedo.
«Va bene.» Poi mi apre lo sportello e paga la corsa al tassista.
«Io ti seguo col motorino» mi dice.
«Allora non c’è bisogno del taxi, ti salto dietro.»
«No, non si può.»
«Certo che non si può, ma lo fanno tutti.»
«Ma no, è che le cose sono un po’ cambiate nel frattempo… dopo ti spiego.»
Così il taxi mi trascina nell’ingorgo della città. Quello non è cambiato, o forse si. È diventato ancora peggio.
Arrivo a casa del Testa e lui è già lì con un sacchettino della Coop. Tira fuori un pacchetto intero di sigarette e me lo passa.
«Oh grazie, me ne bastava una.»
Poi saliamo su.
L’appartamento è sempre il solito, arredato alla stessa maniera, insomma sembra non sia passato neanche un giorno e invece sono venti anni che non ci metto piede. I sogni son roba strana!
Dalla busta della spesa il Testa tira fuori una Moretti da 66, un panino con la mortadella e una barretta di cioccolato bianco, di quello che piace a me. Il Testa m’ha sempre voluto bene…
«Ma che fai, dai! Non importava… Cos’eri senza scorte?» nel dir questo gli apro il frigo e ci trovo ogni ben di dio. Salame, acciughe, vinello, un barattolo d’olive verdi piccanti che ci vado matto.
«Ma che mi prendi per il culo» lo infamo. «Guarda quanta roba che c’hai, e mi sei andato a prendere la moretti e il panino alla coop…»
«Ma non ti offendere, scusa…» balbetta lui. «È che, come ti ho già detto, le cose sono un po’ cambiate in questi anni.»
«Vabbé, ora mi vado a rinfrescare un po’ in bagno e poi torno di qua e mi spieghi tutto.»
«Ma no guarda, non è proprio possibile. Non posso neanche farti usare il bagno.»
«Che cazzo dici?»
Così il Testa si mette a sedere e incomincia a raccontarmi tutto.
«Ti ricordi ai vecchi tempi che ci si scambiava la roba col computer, si scaricava la musica, i film, i libri, ma c’era anche un monte di gente che non gli andava per nulla bene tutta questa festa. Insomma, col passare del tempo questa storia dello scambio è diventata qualcosa di veramente brutto. Non solo t’arrestavano se si beccavano a scambiarti la roba col computer, ma incominciarono anche a proibire gli scambi degli oggetti, insomma delle cose che si usa tutti i giorni. Per questo motivo non ti posso offrire una delle mie sigarette, non posso darti un passaggio sul mio motorino, non posso offrirti qualcosa da mangiare e neanche farti usare l’acqua e la saponetta del bagno. Oggi c’hanno questi satelliti che ti controllano anche in casa, 24 ore su 24. Insomma, se vuoi qualcosa, devi comprartela!»
Io rimango a bocca aperta. Meglio il coma, penso.
«Vuoi dire che non si può più condividere nulla?»
«Proprio così. A proposito, questi sono gli scontrini della spesa e del taxi. Non che rivoglia i soldi, ci mancherebbe, ma potrebbero controllarti…»
«Ma non ci credo!»
E mentre urlo questa frase mi sveglio.
Boia che sogno, mi dissi. Nella stanza sentivo frinire la ventola del PC. Mi avvicinai allo schermo e vidi la finestrella rassicurante degli ultimi download. Anche per quella sera lo spettacolo era assicurato. Presi la cornetta e feci il numero.
«Pronto Testa? Vieni da me a vedere un film?»

GM Willo 2008

martedì 29 settembre 2009

IL ROBIVECCHI


A volte, quando sfoglio un vecchio fumetto o rileggo un passaggio dei miei libri giovanili, mi torna in mente il robivecchi del mio paese. Aveva un negozietto in via Roma, all’angolo della traversa che portava verso il cimitero. Da fuori il locale si presentava trasandato. La vetrina, che dava sulla strada secondaria, era ricoperta di pagine di vecchi giornali, mentre quella sulla strada principale era addobbata in maniera curiosa con oggetti d’epoca e fumetti. All’interno il caos era pressoché totale ma, se avevi un po’ di pazienza, nel mezzo a quel disordine potevi imbatterti in un piccolo tesoro. Poi, se eri davvero fortunato, il vecchio proprietario, che ti guardava sempre con un cipiglio dall’altro lato della sua scrivania, te lo valutava pochi spiccioli.
Quella figura è rimasta impressa nella mia memoria in maniera limpida, benché avessi frequentato quel negozio non più di una decina di volte. Era sulla sessantina, ma aveva un’aria che lo rendeva oltremodo più vecchio, quasi antico quanto il suo mestiere. Sopra la sua alta fronte si apriva un’ampia pelata, circondata da una stopposa peluria bianca che gli ricadeva come una soffice valanga sulla nuca e dietro le orecchie. Sono ancora sicura, come lo ero allora, che quest’ultime facessero fatica a sorreggere le asticelle dei suoi occhiali da vista; due enormi lenti squadrate che gli coprivano quasi totalmente il volto. Sotto il naso, o sarebbe stato più corretto chiamarlo “patata”, una bocca dalle grosse labbra stringeva una lunga sigaretta dal filtro bianco. Non potrei peraltro descriverne l’aspetto fisico, poiché l’ho sempre visto seduto dietro la sua scrivania, e comunque sembrava un uomo molto robusto.
Avevo appena compiuto undici anni. Mi sentivo libera e felicemente inconsapevole. Lasciavo trascorrere le mie giornate alla ricerca di nuove assurde avventure, in compagnia del mio caro amico Daniele. Riguardo a lui dovrei scrivere una e più mille storie; fu per me come un fratello. Pace all’anima sua.
Mentre sul lato nord il complesso cittadino si allungava in piccoli paeselli lungo la strada statale, la strada si perdeva a sud sulle colline che circondavano il paese, paesaggi delicati tipici del pre-appennino, ricchi di vitigni, ulivi e boschetti di faggi e giovani querce. Persi in ingenui vagabondaggi, Daniele ed io costeggiavamo i rilievi sul lato orientale, dove in mezzo alle pinete sorgeva il cimitero del paese. Solitari, più volte ci spingevamo sulle colline, estranei ai divertimenti dei nostri coetanei che si ritrovavano numerosi nelle piazze del centro. Passavamo regolarmente davanti al robivecchi. Entrambi ci soffermavamo stupiti davanti alla vetrina, a guardare i fumetti ed i vecchi libri ammucchiati disordinatamente al suo interno. Come ci sarebbe piaciuto entrare e fare razzia, ma purtroppo le nostre tasche erano troppo spesso vuote.
Un giorno Daniele mi venne a chiamare dicendomi che suo zio era venuto a pranzo dai suoi e gli aveva in segreto allungato un diecino. Voleva andare al negozio del robivecchi per fare un bell’affare. Fu quello il giorno in cui entrai per la prima volta nella bottega, un ambiente polveroso carico di una strana atmosfera. Fin dal primo istante avvertii una sensazione di disagio. Il vecchio se ne stava seduto a fumarsi la sua sigaretta e parlottava a bassa voce con un amico. Quando entrammo posò su di noi uno sguardo di benvenuto di cui avremmo entrambi fatto volentieri a meno. Non ci piaceva quel tipo.
Iniziammo a guardarci attorno, un po’ intimiditi da quel caos, tanto che non sapevamo proprio da che parte iniziare. Gli scaffali ricoprivano le pareti della stanza fino all’alto soffitto. Nel mezzo del locale si trovavano due enormi tavoli cosparsi da una montagna di vecchi volumi. Daniele incominciò a guardare sui ripiani dove erano sistemati i fumetti, mentre io cercavo di orientarmi, sfiorando qualche polverosa copertina e scorrendo con gli occhi i titoli di quel mucchio di roba. Si trattava perlopiù di romanzi spazzatura o vecchie enciclopedie incomplete, ma nel mezzo a questi insignificanti volumi poteva nascondersi un buon classico in elegante edizione, oppure un bel libro di illustrazioni. Improvvisamente un titolo catturò la mia attenzione. Era una copia ben rilegata del “Silmarillion” di Tolkien. La presi in mano e ne osservai la brutta illustrazione sulla copertina plastificata. Se la toglievi rimaneva quella rigida, priva di titoli ma più apprezzabile di quella di plastica. Mi avvicinai al mio amico e gliela mostrai. Daniele rimase colpito quanto me e immediatamente smise di cercare tra i fumetti. Insieme ci avvicinammo al vecchio per chiedergli il prezzo. Beh, fu di certo un buon affare perché ce lo portammo via per sole seimila lire.
Da quel giorno, quando avevamo la disponibilità, ci recavamo dal robivecchi per vedere se c’era qualcos’altro di interessante da acquistare. Vi comprai, nei mesi che seguirono, una decina di raccolte di fumetti e qualche bel libro. Quel negozietto all’angolo della strada per il cimitero era diventato la nostra isola del tesoro.

Quell’anno la mia famiglia partì per le vacanza estive il 15 di luglio. Come ogni volta io e Daniele ci salutammo con un po’ di tristezza, certi però di rivederci e di vagabondare ancora insieme nei primi giorni di settembre, quando il sole sarebbe stato più gentile e le colline avrebbero invitato le prime brezze del vicino autunno. Al mare i giorni passarono lentamente. Non gradivo la compagnia della gente del posto e trascorrevo le giornate in solitudine, mentre il sole cuoceva senza pietà i bagnanti sulla spiaggia affollata. Daniele mi mancava, come al solito. Quando finalmente tornammo dalle vacanze, trovammo il paese in uno stato di agitazione. Mentre eravamo via, era accaduto un fatto a dir poco sconcertante. Una bambina del vicinato era scomparsa e la polizia, che immediatamente aveva iniziato le ricerche, brancolava nel buio. Si chiamava Sara ed io l’avevo vista molte volte giocare in piazza insieme alle sue amichette. Aveva appena cinque anni, un angioletto dagli occhi celesti e dai lunghissimi capelli color del miele.
Anche Daniele era ritornato dalle vacanze e il giorno dopo il nostro rientro ci incontrammo e decidemmo subito di andare dal robivecchi. Tutti e due avevamo accumulato qualche spicciolo durante le vacanze e speravamo di trovare qualcosa di nuovo. Lungo il percorso parlammo della povera Sara e del mistero della sua scomparsa. Mentre cercavamo di terrorizzarci a vicenda, parlando di mostri e serial killer, ci accorgemmo ben presto di esserci entrambi riusciti. Cominciammo a guardarci intorno intimoriti, ma era solo il due del mese, c’era poca gente a giro e ancora molti negozi erano chiusi. Non tutti erano rientrati dalle vacanze. Ci chiedemmo se lo strano vecchio fosse ancora al mare o se ci fosse mai andato. Appena svoltato l’angolo che immetteva in via Roma, constatammo che il negozio era aperto. Entrammo e salutammo cortesemente il vecchio che leggeva assorto un tascabile, sempre sfumacchiando la sua sigaretta. Ci rispose con un cenno del capo e noi iniziammo la nostra cerca.
Era la cosa che ci divertiva di più. Ci abbandonammo a quella specie di caccia al tesoro, immersi dentro a un mucchio di cianfrusaglie polverose. La giornata era calda e non sembrava esserci niente d’interessante. Sudavamo, ma era ancora troppo presto per abbandonare le ricerche. Il tesoro poteva trovarsi sotto quel grosso tomo di ricette, oppure dietro quel libro di fotografie. Un vento caldo agitava pigramente le alte palme. La torrida sabbia penetrava nelle nostre scarpe mentre con le nostre vanghe scavavamo un po’ dappertutto. C’era tempo per tornare al vascello del capitano…
Decisi di cambiare zona e mi spostai verso gli scaffali opposti, dietro la scrivania del vecchio, che rimaneva immobile con il suo libro in mano. Scorrevo velocemente i titoli dei libri sul ripiano. Appesa ad un gancio, la giacca del vecchio copriva parte dello scaffale. Scostai leggermente la manica per poter leggere i titoli che si trovavano dietro. Poi i miei occhi si posarono su qualcosa. Sulla manica che avevo spostato, impigliato tra le fibre marroni scure della giacca, si trovava un lunghissimo capello biondo. In un primo momento quel pelo non destò in me alcuna sorpresa. Mi limitai a tirarlo per l’estremità e a giocarci poi rigirandomelo tra le dita. Fu in un secondo tempo che la mia mente incominciò a fare degli strani ragionamenti, incastrando i pezzi di un puzzle spaventoso. Certo, la piccola Sara non era l’unica in paese a portare dei lunghi capelli biondi. Potevano esistere mille ragioni per giustificare la presenza di quel capello sulla giacca del robivecchi, ma per una ragazzina di undici anni, eccitata dalla misteriosa scoperta e condizionata dal fascino della paura, è pressoché impossibile far ragionare il cervello in maniera logica. L’orribile scomparsa della bambina, la diffidenza riposta dal primo istante verso quello strano vecchio, l’ebbrezza dell’avventura e del pericolo; tutto questo mi convinse che il robivecchi era il responsabile del delitto.
Mi avvicinai a Daniele e sottovoce gli dissi che volevo andarmene, ma lui aveva appena trovato uno scaffale ricco di roba interessante e non voleva venir via. Il vecchio continuava a leggere il suo libro e non ci prestava nessuna considerazione. Rimasi lì inerte, folgorata dal pensiero e dal terrore che quello che avevo davanti fosse un assassino, un maniaco che aveva rapito la piccola Sara e l’avesse violentata, per poi strangolarla e sotterrarla da qualche parte, forse sulle colline. La mia mente vacillava, il mio cuore galoppava impazzito. Tirai il mio amico per un braccio e gli dissi di nuovo che volevo andare via da quel posto e lui, accorgendosi che stavo tremando, mi chiese che cosa mi stava succedendo. Non gli dissi niente, ma lo pregai ancora una volta di uscire. Mi rispose che aveva finito e così si avvicinò al tizio per pagare. Io avevo lasciato i fumetti che mi piacevano, ma Daniele aveva tra le mani due splendide raccolte e un volume di illustrazioni. Andò verso la scrivania e domandò quanto veniva tutto. “Se sapessi che mostro che hai davanti, amico mio!” pensai, mentre avevo già raggiunto la porta. Chiese novemila lire, e quando Daniele pagò, il vecchio gli mostrò un sorriso guasto che mi fece tremare fin dentro le ossa.
Finalmente uscimmo e solo quando fummo lontani dal negozio iniziai a parlare, rispondendo alle incalzanti domande del mio amico. Gli rivelai i miei sospetti e lo convinsi facilmente. Anche a lui il vecchio non gli era mai piaciuto. Volevamo avvertire la polizia, ma decidemmo di pensarci bene sopra e rimandammo al giorno dopo. Naturalmente a mente fredda i fatti diventarono molto meno strani di quanto sembravano il giorno prima. Dopo averne parlato per un po’, ci convincemmo che quel capello poteva appartenere a una parente o a un’amica del vecchio. E poi a polizia non avrebbe mai perduto del tempo con dei ragazzini.
Passarono alcuni giorni ed entrambi ci acquietammo, ma alcuni dubbi rimasero, tanto che non rimettemmo mai più piede nel negozio del robivecchi. Un mese dopo il vecchio chiuse baracca. Non sapemmo mai se avesse venduto la proprietà o se si fosse spostato. In ogni caso non lo rivedemmo mai più. La piccola Sara non venne mai ritrovata e la polizia, dopo tre mesi di ricerche, archiviò il caso.
Sono passati tanti anni. Il mio caro amico Daniele non c’è più. Amava le moto, ed un’automobile impazzita lo prese in pieno, un brutto giorno d’aprile…
Adesso solamente io ricordo ancora questa storia. Mentre riguardo quei fumetti acquistati dal robivecchi, mi tornano in mente le felici giornate della mia infanzia, la spensieratezza e la genuina follia senza prezzo della gioventù. E quando penso a quel vecchio con quei grossi occhiali e la sigaretta dal filtro bianco, sento ancora un brivido percorrermi la schiena.

Aeribella Lastelle – 1996

lunedì 28 settembre 2009

IL FOTOGRAFO

Il fotografo rubava i volti. Ritagliava la vita in un frame, cercandone il senso. Spesso ritraeva volti di donna. Altre volte erano anziani, oppure bambini.
Un giorno il click rubò gli occhi di lei. Nadia si chiamava, un’ombra tra le ombre nel flusso incessante della metropolitana.
I pixel ricomposero l’immagine sul suo flat screen. Poi la cercò per 449 giorni, nei labirintici vicoli della sua città. Quando la rivide le corse incontro e le mostrò la foto.
«Questa sei te?»
«Si…»
«Finalmente hai dato un senso a questa immagine.»
«Perché?»
«Perché dovevo trovarti..»
Esistono un’infinità di sistemi per baloccarsi col destino.

venerdì 25 settembre 2009

IL RE DI FIORI

Allora, fatemi ricordare. Eravamo io, il Tibia, il Cossu, il Nanni e Fantomas. Non vi sto a spiegare le ragioni di questi nomignoli, altrimenti non se ne esce. Tengo solo a precisare che per loro ero e sarò sempre il Gano. A posto così. Si diceva…
Eravamo noi cinque e s’andava una bellezza. Ramino, conchino, scala, ventuno, pokerone, insomma ci si divertiva. Chi aveva l’amaro, chi preferiva il grappino, quattro pacchetti di sigarette e uno di toscanelli. Il tavolo era pronto. Sabato sera, serata lunga, perché il circolo di sabato chiude alle due. Soliti ignoti; i ragazzini al balilla, la televisione accesa ma nessuno che la guarda, la bella Giorgia che serve camparini senza ghiaccio e montenegri nei bicchieri per il martini. Un universo perfetto, circolare, come il disegno di un essere supremo. Pianeti che orbitano con precisione attorno al bancone, comete che appaiono per pochi istanti per poi sparire per sempre alla vista, stelle che nascono e stelle che muoiono.
Mi erano entrate tre grandi chiusure in mano. La cosa mi aveva messo di buon umore, così decisi di offrire un giro a tutto il tavolo; in pratica mi sputtano metà della vincita della serata. Ma nel mio piccolo mondo è una cosa normale, non so se mi spiego. Non si gioca mai per i soldi. Sono le emozioni, sempre loro, quelle che contano realmente. Sia che tu vinca o che tu perda.
Il Cossu fa una smorfia, pare stizzito. Il Cossu è uno stronzo e lo sa tutto il circolo, però quando gli arriva lo jeger se lo beve e sta zitto. Il Nanni ride divertito. Il Nanni ride sempre, è così. Fantomas e il Tibia rilanciano. Facciamo un pokerato, o pokerone, o come cavolo volete chiamarlo. Io accetto, il Cossu borbotta ma rimane inchiodato alla sedia, il Nanni continua a ridere. E via così, alla grande…
Il Cossu perde anche il pokerone e s’incazza di brutto. Decide di smetterla, s’infila la giacchetta di flanella a scacchi, guanti, berretto, e senza salutare si dilegua. Meglio così, siamo giusti giusti per una briscola in quattro. La meravigliosa briscola a quattro.
Mi ritrovo in coppia con Fantomas, ed è una bella storia. Fantomas gioca quieto, fa i segni giusti senza mai esagerare. Ma bisogna stare attenti al Nanni, che a briscola ci sa proprio fare. E poi ha un culo che non vi dico!
Si è fatto tardi, sono quasi le due. La Giorgia se ne è andata. È rimasto solo Aldo, suo padre. Sprofondato sulla sedia si guarda un vecchio film di Alberto Sordi, la senza filtro stretta con forza tra le dita. Il Circolo è quasi vuoto. Ci siamo solo noi e un paio di stronzi al videopoker. Ma Aldo tiene comunque aperto fino alle due, a volte anche fino alle due e mezzo, perché è sabato e tra poco arrivano le signore.
Le signore sono vecchie amiche bisognose di conforto. Un caffè, a volte un cognac, tanto per continuare la nottata, che, neanche a dirlo, è molto lunga. Le signore sono la Petra, la Vanna, la Simona. Brave donne, dico io, ma è solo il mio piccolo punto di vista…
Quella sera ce n’è una nuova. Si chiama Elisa, o Elisabetta, non ricordo, ed è davvero qualcosa di speciale. Non giovanissima, ma neanche tardona come le altre. È arrivata da poco, ma questo non vuol dire che sia nuova alle arti dell’amore.
Elisa se ne sta in disparte, mentre le altre ordinano da bere. Si guarda attorno ed io le cerco lo sguardo, distraendomi dal gioco. Non capisco ancora se è preda o cacciatrice, comunque sembra notarmi. L’avessi mai fatto… Un attimo dopo la vedo avvicinarsi al tavolo da gioco.
«Buonasera signori…» l’approccio è di sicuro quello di una cacciatrice. Noi ricambiamo il saluto, cortesemente, timidamente, nervosamente. Le donne sono troppo più avanti di noi uomini!
Il Tibia è un rinomato puttaniere. Negli occhi gli leggo l’interesse, la voglia di scoprire il nuovo. Si sporge subito verso la dama, se ne esce con un paio di battute stupide, lei gli da confidenza, lo lusinga, ci gioca.
«Lo conoscete il gioco del re e della regina?» ci domanda ad un tratto. Lei non aspetta neanche la nostra risposta e afferra il mazzo di carte.
«Mai sentito…» borbotta Nello, che secondo me è gay.
«Ce lo spieghi tu?» le chiede di rimando il Tibia.
«Certo caro. Io faccio la regina, va bene? Tu sarai il mio re…» una gatta in calore non avrebbe saputo fare fusa migliori.
«Allora, io mischio le carte, poi tu ne peschi una. Se trovi un re, andiamo di là e ti faccio da regina» e indica il bagno delle signore.
Noi ci guardiamo sorpresi. Il Tibia trasuda euforia.
«E se pesco un’altra carta?» domanda lui.
«Allora mi paghi il caffè. Siamo d’accordo?»
E così la roulette ebbe inizio.
Lei mischiava le carte come un biscazziere. La cosa m’impressionò molto. Il Tibia non sembrò farci caso. Le guardava le cosce e il corsetto. Poi spezzò il mazzo, delineò un arco con una metà, e la ripose sopra quell’altra, davanti alla faccia inebetita del mio amico.
«Pesca!» gli ordinò.
E lui pescò un re di fiori. Che culo, pensammo, e continuammo a pensarlo per un bel po’, mentre si alzava dal tavolo insieme alla tipa, mentre ne se andavano di pedina verso il bagno delle signore, mentre si facevano nei nostri cervelli una megacavalcata sopra il lavandino.
Ma poi accadde qualcosa. Passavano i minuti e non usciva nessuno. Le altre donne se ne erano già andate, i videopoker erano spenti e spenta era anche la televisione. Aldo aveva già abbassato per metà il bandone.
«Che cavolo succede?» chiede Fantomas.
«Andiamo a dare un’occhiata…» propone Nello, che è gay o forse guardone..
«Vedrai che si stanno divertendo» dico io, ma qualcosa non mi torna. È mezz’ora che sono chiusi là dentro, e il Tibia non dura mai più di dieci minuti.
Spieghiamo la situazione ad Aldo. Aldo, placido come un bonomo, se ne rimane sul marciapiede a fumarsi la sua ennesima senza filtro.
A questo punto mi avvicino alla porta del bagno. Busso leggermente. Poi dico: «Oh, avete finito?»
Niente. Nessuno risponde.
Allora busso più forte, macché. Silenzio. Ma se restano zitti vuol dire che non stanno nemmeno trombando, mi dico. Vuoi vedere che è successo qualcosa. Provo ad aprire la porta ma è chiusa dall’interno. Cavolo, penso. Allora chiamo i due stronzi dietro di me, due facce da culo che non vi dico. Li spiego la situazione e vanno a chiamare Aldo, che sopraggiunge con un piede di porco. Un minuto dopo siamo dentro il bagno delle donne, ma del nostro amico e della fantomatica Elisa neanche l’ombra. Spariti!
«Per me siete tutti e tre ubriachi!» conclude Aldo tirandosi dietro il bandone. Poteva anche aver ragione, perché di bicchierini ne erano passati quella sera, ma nessuno di noi tre aveva perso di vista per un secondo la porta del bagno, e quei due non potevano avercela fatta sotto il naso. Comunque ce ne andiamo tutti quanti a casa, perplessi e anche un po’ preoccupati.
La conferma l’avemmo il giorno seguente. Nessuno sapeva più dove si trovasse il povero Tibia. A casa non era tornato, e sua sorella, la Marcella, non aveva idea di dove fosse. Io andai a cercare le signore per chiedere qualche informazione su questa Elisa, ma loro non se la ricordavano neanche. Mai vista!
La sera dopo noi ci ritrovammo al solito tavolo. Raccontammo la storia al Cossu che ci prese per pazzi. Poi qualcuno propose una briscola, che tanto eravamo solo in quattro. Iniziammo, ma c’era qualcosa che non andava con le carte. Erano proprio quelle della sera prima. Dopo averle smistate, ne rimaneva una fuori. Così mi misi a contarle. Una, due, tre, trent’otto, trentanove, quaranta, quarantuno…
«Che cazzo vuol dire!» esclamai.
Le ricontai altre due volte, ma erano sempre una in più.
«Puttana!» mormorai io a denti stretti. E cercai il re di fiori nel mazzo. Ne trovai due. Due maledetti re di fiori.
Povero Tibia!

Gano 2008

martedì 22 settembre 2009

IL NUOVO SPETTACOLO

Il NUovo Spettacolo

A volte può prenderti così, ti lasci andare e ti ritrovi davanti allo schermo bianco, con il cursore che lampeggia impaziente in alto a destra. Provo a pensare che sia tutta colpa dei fili che ci uniscono, una forza incontrollabile che ti spinge a comunicare, a provare a capire e spiegare. Me li immagino questi fili lunghissimi e sottili, sopra le nostre teste, da una parte all'altra della città e del continente. Non è tecnologia. Ci sono sempre stati.
A volte si toccano. Spesso si rompono. Quando riescono ad intrecciarsi bene formano delle corde più salde. E corrono sempre sopra le nostre teste. Noi ci allunghiamo e quando ne abbiamo bisogno ne afferriamo uno. Riuscirà a sorreggerci?
Ho sentito T. stasera. Gli ho mandato un messaggio ed erano sei mesi che non sentivo la sua voce. Mi ha chiamato subito dopo.
«Ciao G., che bello risentirti ... »
«Maledetto, dove ti eri cacciato?»
«Un po' a giro, sai. Sto organizzando una mostra fuori, e poi altre cosine. Non ho avuto tempo neanche per respirare in questi ultimi mesi.»
«Me lo immagino. Ho visto due bozze degli ultimi tuoi lavori, quelli che hai lasciato da N., sai? Notevoli davvero. Soggetti un po' pesanti, alla vecchia maniera ... »
«Si, ho voglia di tornare alle prime cose, raschiare un po' il pentolone dei ricordi.»
«Già! Le vecchie storie che non muoiono mai ... »
«Eh si, lo hai detto!»
«Ma ci sei per il fine settimana? Che ne dici di andare da qualche parte a farci una bevuta?»
«Mi piacerebbe un sacco davvero, ma devo tornare via. Sai, per la mostra... »
«Ho capito. Beh, allora sentiamoci presto, ok? Aspetto tue notizie .... »
Ma so che non sentirò la voce di T. fino alla prossima mia chiamata. I fili esistono ancora ma gli intrecci si sono sciolti.
Esco. L'aria è quella frizzante di settembre.
È notte. I rumori della campagna vicina sono sussurri di storie antiche.
Un suono. È il rumore di un treno in lontananza, una voce fascinosa che mi ricorda quei viaggi di un tempo. Erano viaggi diversi, brevi ma lontani. Oggi atterro dall'altra parte del continente e non mi sembra neanche di essermi mosso da casa. A volte anche a piedi coprivamo distanze assurde. Il segreto era varcare quelle porte.
Le porte.
Nella notte di settembre scendo al fiume. Raccolgo dei sassi mentre cammino perché so che non ce ne saranno più in là. Sono diventato un uomo previdente, ma ho perso qualcosa. Un tempo sarei arrivato al fiume a mani vuote, ma guardandomi in giro avrei trovato quelle pietre che desideravo gettare. Non so perché, ma le avrei trovate.
Sulla superficie del fiume ci sono i riflessi dei lampioni. Gioco a colpirli con i sassi e loro mi regalano delle onde luminose. Mi giunge anche un suono grazioso: “gluc”. Lo conosco. Mi piace. Starei seduto per ore ad ascoltarlo.
Ripenso alla conversazione di stamattina col mio capo.
« ... non è che non mi interessa, è che in questo momento non me la sento.»
«Non te la senti? Ma come? Ti propongo un’occasione come questa e mi dici che non te la senti? Credevo che ne saresti stato più che felice ... »
«Beh, forse un paio di mesi fa, ma adesso non so... »
«Cosa non sai? Cazzo, adesso mi metti in difficoltà G.. Cioè, credevo che avresti accettato al volo e mi ero organizzato di conseguenza. Adesso che cazzo faccio?»
«Non so cosa dirti, davvero. È che ho bisogno proprio di tutt’altro in questo momento. Anzi, avrei bisogno di qualche giorno di ferie.»
«Addirittura! Allora sei messo veramente male. Quando sei entrato ti dovevamo fare andare a casa con la forza, e adesso ... »
«Si, lo so, ma è un periodo strano ... »
«Sai cosa ti dico? Prenditi una settimana. Rilassati. Hai solo le pile scariche. Vedrai che quando torni starai meglio.»
No, non starò meglio.
Questa e la fine di qualcosa, lo sento. Sono i titoli di coda, o forse è già l'intervallo tra uno spettacolo e l'altro. La musica è soffusa, le luci sono accese e la gente è al bar a prendere da bere. Ma io non so come è finito il film.
Tra le mani mi ritrovo una pietra piatta. Cerco di farla saltare sull'acqua. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei... No, erano solo cinque.
Si cerca sempre di fare qualcosa di più, di essere più bravi degli altri. È tutta una rincorsa, e riprendi fiato solo nell'intervallo. In quel breve momento ti fai una bevuta, tiri un respiro e poi riparti. Ma non provare a domandarti cosa stai rincorrendo, altrimenti rimpiangerai il prezzo del biglietto.
Mi accendo un sigaretta. Mi piace vederla consumarsi di rosso mentre aspiro la sua mortale nicotina. Mi piace il fumo grigio che sprigiona nella notte. Mi piace quel suo gusto denso e stordente. Credo che il piacere più grande sia quello di sapermi ancora sopravvissuto a lei, che ormai è gia una cicca tra le mie mani.
Siamo pronti per il nuovo spettacolo?

GM Willo 2002

IL REGNO DELLE OMBRE

Piangevo.
Piangevo per nessuna ragione in particolare.
Piangevo perché mi sentivo triste, perché qualcosa d’importante era finito, perché il giorno si stava per chiudere, e le ombre della sera venivano a reclamare il loro regno.
Piangevo per mille motivi, o forse solamente perché volevo essere consolata.
Piangevo seduta sui gradini di casa, la porta aperta alle mie spalle, così potevo sentire suonare lo stereo dal piano di sopra, il vecchio Tim Buckley.
Il bambino si avvicinò silenzioso e si sedette accanto a me. Lo conoscevo bene. Abitava dall’altro lato della strada e tutti i giorni lo vedevo uscire di casa con una grossa cartella rossa. Il suo nome era Leonardo, ma i suoi amici lo chiamavano Nio.
«Signorina Lastelle, perché piange?»
La voce dei bambini ha proprietà magiche. Penetra gli scudi degli adulti come una lama rovente nel burro, e va subito a toccare l’intimo.
«Ciao Nio. Oh niente, sono solo un po’ triste…» mentii. Provai vergogna. Io, l’adulta, la ragazza mancata, la signora mai stata, lo scherzo chiamato donna del ventunesimo secolo. Mentire a un ragazzino…
«Ha paura delle ombre?» mi chiese.
Le ombre sono delle bastarde, lo sapete vero? Specialmente in quelle giornate di maggio, piene di colori caldi, e fuori si sta in maglietta, ed è una meraviglia. Ma poi le ombre incominciano ad allungarsi, il sole penzola all’orizzonte e allora la maglietta non ti basta più. Arrivano i brividi agli avambracci, quelli che ti dovrebbero far sentire viva, ma che invece ti ricordano la tua caducità.
«Un po’…» confessai.
«Si, anch’io ho paura delle ombre, ma conosco un segreto per scacciarle.»
«Davvero?»
«Si. Vuole conoscerlo anche lei?»
Gli occhi di Nio brillavano d’aspettativa. I miei, grazie a lui, avevano smesso di inondarmi il volto.
«Nei sarei felice» ammisi.
«Ecco qui.»
Dalla tasca dei pantaloni tirò fuori una piccola torcia elettrica, di quelle da attaccare al portachiavi.
«Quando le ombre si fanno davvero insidiose, li sparo addosso la mia lucina. Così mi accorgo di quanto sono innocue. Basta una lampadina per farle scappare…»
«È un’ottima idea, Nio.»
«Lei ce l’ha una lampadina?»
«Sfortunatamente no.»
«Allora prenda questa. Io ne ho altre due a casa.»
«Ma non posso accettare…»
Ma per fortuna i bambini non capiscono il significato delle buone maniere. Mi mise in mano la torcia e mi salutò.
Di sopra Tim Buckley aveva finito di lamentarsi. “Maledette ombre, stasera ve lo faccio vedere io!” pensai, rientrando in casa. Avevo voglia di sentire quella babuska di Kate, e di aprirmi una bottiglia di buon vino.
Dopo quel giorno non ho mai smesso di portarmi dietro una lampadina. Pensatela come vi pare, ma mi fa sentire piú tranquilla…

Aeribella Lastelle 2009

lunedì 21 settembre 2009

L'ANELLO

«Amore, hai visto per caso il mio anello?»
«Ce l’hai al dito…»
«Ma no, non la fede. L’anello che avevo al mignolo, quello fine d’argento…»
«Avevi un anello al mignolo?»
«Ma certo… che fai, mi prendi in giro?»
«Ti giuro che non te l’ho mai visto… ma sei sicuro?»
«Certo che sono sicuro…»
Quinto Bertocchi se ne esce di casa alle otto meno un quarto, in leggero ritardo e con un evidente malumore. Si guarda il dito mignolo mentre poggia le mani sul volante, e prova a ricordare dove potrebbe essere andato a finire il suo anello. Nonostante il traffico, la radio, il mal tempo e gli appuntamenti di lavoro, non riesce a pensare ad altro. Appena entra in ufficio convoca la sua segretaria.
«Teresa, hai per caso visto il mio anello?»
«La fede nuziale?»
«No, quella ce l’ho. Sto parlando del piccolo cerchio d’argento che avevo al mignolo, si ricorda?»
La segretaria prende tempo per far finta di ricordare e poi scuote la testa.
«No, sinceramente…»
«Ma come no…» la interrompe l’ingegner Bertocchi, leggermente infastidito.
«…aspetti, ora che ci penso, mi sembra di ricordare qualcosa. Però non l’ho visto» mente lei.
«Ecco, lo sapevo! Mia moglie voleva farmi passare per scemo.»
«Mi scusi?»
«No, niente… »
«Ha provato a vedere nel bagno? Magari se lo è tolto ieri per lavarsi le mani e poi lo ha dimenticato sul lavandino.»
«Si, ottima idea. Andrò subito a vedere.»
Teresa se ne torna alla sua scrivania, felice di lasciare il capo alle sue beghe. Lui perlustra da cima a fondo ufficio e bagno ma non trova nulla. Si prova a mettere a lavorare, ma non riesce a concentrarsi. Attende rovellandosi l’ora di pranzo.
«Giorgio, ti ricordi dell’anello che avevo al dito?»
Al tavolino del bar sotto gli uffici siedono Matteo Franceschini, Giorgio Pirani e il nostro Quinto Bertocchi. Insalatina, capaccio di bresaola, prosciutto e melone e tre bicchieri di vino bianco, leggero perché dopo si torna a lavorare.
«Un anello?»
«Esattamente! Qui al mignolo, avevo un anello d’argento, come una piccola fede.»
«Ma sai, io sono un po’ distratto con queste cose. Ricordo a malapena quello che ho mangiato a colazione.»
«E tu, Franceschini?»
«Cosa?»
«Mi hai mai visto un anello a questo dito?»
Lui alza la testa dal carpaccio, ci pensa un po’, o come la Teresa fa finta di pensarci, e poi risponde di no.
«Questa storia è davvero strana, sapete? È come se questo anello me lo fossi inventato. Nessuno lo ricorda, ma sono sicurissimo di averlo avuto al dito, almeno fino a ieri sera.»
«Beh, se sei sicuro allora ce lo avevi.» risponde l’ingegner Pirani.
«La gente è distratta, sai com’é…» aggiunge l’avvocato Franceschini.
«Si, ma neanche mia moglie se lo ricorda…»
«Sabato scorso sono passato dall’edicola e ho comprato una rivista di fotografia» racconta Giorgio, «e mia moglie è rimasta sorpresa. Si era completamente dimenticata che è dai tempi del liceo che sono un fotoamatore. È un mondo troppo veloce, nessuno riesce più a stare dietro a tutto… Non preoccuparti Quinto…»
Ma le parole di conforto dell’ingegner Pirani non riescono a tranquillizzarlo. Alle tre e mezzo decide di tornarsene a casa, che tanto di lavorare non se ne parla nemmeno.
L’ingegner Bertocchi è un tipo preciso. Non perde mai nulla perché ogni cosa ha un suo posto, sia nel mondo materiale che nella sua testa. Per questo motivo la faccenda dell’anello lo turba. È tentato di mettere a soqquadro la casa, ma invece si limita a cercare senza smuovere gli oggetti. Si sforza di ricordare, un’immagine, un’occasione, un rituale della sua vita super programmata. Niente.
Sua moglie torna alle sei e quaranta. Lui ha preparato un risotto che mangiano insieme guardando il telegiornale. Vorrebbe chiederle nuovamente dell’anello ma teme un’altra smentita. Siedono in silenzio, si fumano un paio di sigarette, poi lei lascia il tavolo con la scusa di dover finire del lavoro per il giorno dopo. Sparisce nello studio mentre alla TV passano lo sport.
Quinto si alza, spenge l’apparecchio e si mette il cappotto.
«Esco a comprare le sigarette. Ti serve niente?» domanda alla moglie attraverso la porta chiusa dello studio. Lei risponde di no e un secondo più tardi lui è già fuori.
Gira a vuoto per le strade del centro, nel silenzio ristoratore dell’abitacolo della sua auto. Si chiede se non stia per impazzire. Succede a volte, come a quel vecchio collega che si era imbottito di pasticche. Quand’è che era successo? Un mese prima? Lo ricorda bene quel collega, Marzio Frignani, quarantotto anni, due figli. Quella mattina presero il caffè insieme, lo ricorda benissimo, e mentre alzava la tazzina c’era il suo anello, certo, come poteva dimenticarlo. No, non era pazzo…
Accosta l’auto, slaccia la cintura e incomincia a perquisirla da cima a fondo. Dietro i sedili, sotto i tappetini, dentro gli scomparti laterali. Si aiuta con una torcia elettrica che estrae da dentro al cruscotto. Passano i minuti, fuori piove ma deve tenere gli sportelli aperti se vuole fare un buon lavoro. Quando finalmente si convince che dell’anello non vi è traccia, ha i pantaloni completamente bagnati. Sprofonda sul sedile, tira un sospiro, si accende una sigaretta e guarda fuori attraverso lo sportello spalancato. Un uomo lo osserva dall’altra parte della strada.
«Che c’è?» gli urla. È infastidito, quasi rabbioso, ammazzerebbe una persona solo per darsi un contegno.
L’uomo ha un ombrello e un soprabito grigio. Fuori è troppo buio per distinguere i suoi lineamenti.
«Ha bisogno di una mano?» domanda gentilmente.
«Ho perso il mio anello…»
«Mi dispiace.»
Quella risposta lo scuote. Per la prima volta in tutta la giornata qualcuno lo aveva fatto sentire meglio.
«Gentile da parte sua. Ma vede, il problema è che non sono più sicuro che ce lo avessi…»
«Non ricorda di avere avuto quell’anello?»
«No, io lo ricordo benissimo. Sono gli altri che non se lo ricordano. Persino mia moglie, si figuri…»
«Così lei pensa di essere sul punto d’impazzire…»
«Si…»
La città è deserta, i lampioni si riflettono sull’asfalto bagnato, la pioggia continua a battere.
«Lei non sta cercando l’anello. Lei sta solo cercando di convincersi che non è mai esistito, ma per quanto si sforzi non riesce a dimenticarlo.»
«E se non fosse davvero mai esistito?»
«Beh, adesso esiste, non le pare? E per quanto lo voglia cancellare dalla sua testa, quell’anello esisterà sempre. Quindi, le do un consiglio; accetti semplicemente il fatto che lo ha perso, e non ci pensi più. Domani passi in gioielleria e ne compri uno nuovo, uguale a quello che crede di aver perduto. Poi lo mostri a sua moglie e suoi conoscenti e dica loro che lo ha ritrovato. Vedrà che non faranno una piega, e penseranno semplicemente di non averlo mai notato.»
Quinto Bertocchi alza la testa verso l’uomo con l’ombrello, immobile sull’altro lato della strada.
«Che significa tutto ciò?»
«Che nella vita a volte si rincorre e altre volte si è rincorsi, e non possiamo permetterci di rimanere ad aspettare chi è rimasto indietro» risponde misteriosamente lo sconosciuto, prima di rimettersi in cammino sulla strada buia.
Il giorno dopo l’ingegner Bertocchi seguì il consiglio dell’uomo con l’ombrello ed accadde esattamente quello che aveva previsto. Tutti quanti si convinsero di non aver mai notato l’anello ma nessuno se ne preoccupò.
Per Quinto Bertocchi quello fu anche il primo giorno della sua nuova vita. Nei mesi successivi lasciò il lavoro, la moglie e la città, e prese un treno che andava verso nord. Dal finestrino gettò via l’anello, e si augurò che qualcuno lo trovasse, e potesse iniziare a vedere le cose come adesso le vedeva lui.
Perché tutto esiste nel momento in cui lo si pensa.

GM Willo 2009

domenica 20 settembre 2009

MUJINA

Il taxi si ferma proprio davanti al portone di casa. Scendo. Corro. La pioggia battente mi scivola addosso. È buio pesto, ma non ho bisogno di cercare le chiavi. Le ho in mano.
Entro. Tremo. Barcollo. I capelli bagnati sulla faccia. Scaravento per terra la borsa, il cappotto, le scarpe. Sento ancora l’odore di lui.
Raggiungo la porta del bagno. Le lacrime si mischiano alla pioggia, ma sulle labbra rimangono amare. Accendo la luce sopra lo specchio. Non posso guardare!
Rievoco gli abbracci, le carezze, il piacere. In un’ora mi sono giocata la vita.
Guardo su. Urlo. Dov’è il mio volto?

Aeribella Lstelle 2008 per 101 Parole

venerdì 18 settembre 2009

ENZINO

A Enzino piacevano le rumene. Le trovava semplici, dolci e a un buon prezzo. Mi confessò di averne bisogno, di aver bisogno della sua vacanzina mensile per andare a trovare le sue amiche.
«Ho comprato la Spider, un’auto da ragazzacci, ed io lo sono dopotutto. Ho sessant’anni, ma si vive una volta sola»
Lo guardavo annuendo, pensando a come sarò io a sessant’anni, a come le cose saranno, a che piega prenderà questo mondo. Fumava la sua sigaretta del dopo caffè ricordando i lieti momenti trascorsi in tenere compagnie. Un uomo che non ha alcuna storia alle spalle e non sa più che cos’è il futuro. Un uomo tranquillo, illuminato dalla religione del Presente.
Io mi prendevo una pausa e ascoltavo le sue storie, e ridevo di lui, con lui e ridevo anche di me. Ridevo di me perché avevo riso di lui ed era ridicolo.
Mi disse di nuovo di quella Spider di cui andava così fiero. Io gli risposi: «Enzo, lo sai che si vive una volta sola!» E lui: «Già, hai proprio ragione.» Ma era tardi ormai e doveva rientrare in fabbrica, caro vecchio Enzino.
Mi raccomandò di segnare tutto sul suo conto, come al solito ovviamente. Il conto che avrebbe saldato a fine mese, prima di partire per la sua abituale vacanzina. E giù a testa bassa fino a quel giorno.

GM Willo - 2001

giovedì 17 settembre 2009

L'EREMITA

leremita

All’emporio di paese i bambini giocavano a dadi su un tavolino della sala comune. Fuori era una giornata di quelle da rimanere davanti alla stufa, a raccontarsi storie di fantasmi. In montagna, d’inverno, ve n’erano diverse di giornate così. Freddo, ma non abbastanza per nevicare, nebbia fitta da tagliare col temperino e una pioggerella insistente che penetrava le ossa. Meglio starsene insieme all’emporio di Aldo, che tanto la scuola era chiusa. Mancavano due giorni a capodanno.
Al tavolo dirimpetto ai ragazzi sedeva Luigi il macellaio. Chiacchierava con un signore che non si era mai visto prima. Forse era uno venuto dalla città con il bus del mattino. Al paese arrivava solo un autobus, due volte al giorno, alle sette e alle quattro di pomeriggio. Neanche la nebbia lo fermava quello!
I due parlavano del mondo e bevevano china calda. Nella sala dell’emporio, che faceva da bar, edicola, tabacchi, ricevitoria e ufficio postale, la TV era accesa, ma il volume era smorzato. Davanti vi sedeva Pierino, novantottotenne cuor di leone. A lui il volume non serviva. Era sordo come le campane.
I bambini giocavano con tre coppie di dadi, una bianca, una nera e una rossa. Il gioco era semplice, come tutti i giochi di dadi. Si tiravano quelli bianchi e bisognava superare il risultato con i rossi, mentre con quelli neri occorreva fare un totale inferiore. I giochi di dadi, proprio per la loro semplicità, alimentavano interessanti chiacchierate.
«Chissà cosa farà l’eremita?» si chiese un bambino.
«Ha acceso la stufa. Ho visto il fumo mentre uscivo di casa» rispose un altro.
«A pensarci mi vengano i brividi…» confessò un terzo.
L’eremita viveva sulla montagna, in una casettina di pietra, accanto a un vecchio monastero abbandonato. Dal paese un sentiero si arrampicava per un chilometro attraverso un bosco di abeti, fino alla sua dimora. Ma nessuno lo aveva mai visto. Alcuni bambini pensavano che fosse solo una leggenda, altri dicevano che aveva fatto un voto a dio, perciò non poteva uscire di casa. La moglie di Aldo gli portava ogni tanto un sacchetto di provviste. Ma c’erano anche altre storie…
«Mio padre mi ha detto che è un uomo molto pericoloso…» esordì un quarto bambino.
«Anche il mio lo dice» confermò un altro.
«Non è pericoloso… è pazzo!» Queste ultime parole furono pronunciate dal bambino più grande del gruppo. Aveva dieci anni e già pensava di essere un’autorità. Perciò si arrogò il diritto di spiegare agli altri la verità sull’eremita.
«Hai capelli grigi, lunghi ed ispidi, perché non si lava mai, e una barba lanuginosa piena di pidocchi. Si ciba degli animali del bosco e li mangia crudi. Uccelli, scoiattoli, persino i ratti. Se ti avvicini alla sua casa lo puoi sentire parlare da solo. Dice cose incomprensibili, all’apparenza senza senso, ma mio padre mi ha detto che sono preghiere per il diavolo.»
Quando il bambino terminò la sua descrizione, il silenzio era calato sul gruppo, e i dadi avevano smesso di ruzzolare. In quel momento fuori il vento sembrò cantare un nuovo motivo, una canzone che metteva i brividi. L’amico del macellaio non poté fare a meno di sorridere. Aveva sentito tutto, e non perse l’occasione per intervenire, spezzando quel silenzio imbarazzante.
«L’eremita è un buon uomo…»
Tutti i bambini si voltarono verso il tavolo accanto. Era un signore distinto di una certa età, con un maglione rosso e una zazzera striata di grigio. Portava un paio di occhiali dalla montatura delicata, come quella che hanno sempre i grandi professori. Luigi sedeva accanto a lui, sorseggiando la sua china. Sotto i baffi nascondeva un sogghigno.
«Tanto saggio non deve essere se se ne sta tutto solo» dichiarò il ragazzino, cercando l’approvazione dei suoi compagni.
«Ah, ma non è da solo…» rivelò lo straniero. Chi era costui? Come mai sapeva tutte queste cose sull’eremita? I bambini adesso morivano dalla curiosità, così l’uomo riprese a parlare.
«In verità non esiste compagnia migliore della sua, ed è proprio per questa compagnia che se ne sta sulla montagna.»
«Mia nonna mi raccontava di un’arpia che gli faceva da moglie, e di un figlio nano» esordì uno del gruppo. Gli altri si girarono a guardare il compagno, pronti a sostenerlo. Perché i ragazzi, quando fanno gruppo, si azzuffano come dei gatti, ma davanti ad un adulto rimangono più uniti dei denti di una cerniera.
«È vero, lo diceva anche mia zia…» ribadì un altro.
L’uomo col maglione rosso fece una risata così grossa che si girò perfino Aldo, che se ne stava a leggere il giornale dietro al bancone. I bambini rimasero in silenzio, intimoriti più di prima.
«Non ci sono né arpie né nani lassù. C’è solo un uomo insieme a se stesso, e come vi ho già detto, non esiste compagnia migliore.»
Adesso i ragazzi si sentivano davvero confusi. Che cosa voleva dire quello straniero? Che l’eremita era solo con se stesso? Se era solo, era solo, punto e basta. Lo sconosciuto con gli occhiali da professore li stava prendendo in giro, ma nessuno aveva il coraggio di controbattere. Allora lui riprese a parlare.
«L’eremita ha avuto una lunga vita e gli sono capitate cose belle e cose meno belle. Ha avuto una moglie, che non era un’arpia ma una donna bellissima, e tre figli, che non erano nani ma dei ragazzi sani e intelligenti. Ha viaggiato molto, ha avuto tantissimi amici, è stato amato e rispettato. Col passare del tempo ha avuto anche degli insuccessi, ha perso degli amici importanti, è stato costretto a lasciare la sua città natale e a vivere di espedienti. I figli nel frattempo sono cresciuti e la moglie si è ammalata e lo ha lasciato. A quel punto lui si era accorto di essersi perduto, e l’unico modo per ritrovarsi era starsene da solo. Per questo è venuto su questa montagna. Ha comprato la casa più in disparte, quella vicina al vecchio monastero, e ha vissuto in solitudine per molti anni. Ma non è vero che non esce mai di là. Spesso scende giù all’emporio, ed è un signore distinto, al quale piace fare due chiacchiere con Aldo oppure con Luigi. Si beve la sua china calda, prende la borsa con la spesa e risale su. Se non l’avete mai visto, è solo perché pensavate che fosse un vecchio con i capelli arruffati e la barba piena di pidocchi…»
I bambini erano rimasti a bocca aperta. Le loro piccole testoline stavano ricomponendo il puzzle, ma ci sarebbe voluto ancora qualche minuto. Nel frattempo lo straniero si alzò dal tavolo, salutò prima il macellaio e poi i ragazzi. Da dietro al bancone Aldo gli passò una borsa piena di provviste. Lui pagò e se ne andò.
A Luigi scappò una risata così forte che anche Pierino, assorto davanti al televisore, riuscì a sentirla. Si girò e disse: «Ma statevene un po’ zitti laggiù!»
E così i bambini si rimisero a giocare a dadi.

GM Willo - 2008

mercoledì 16 settembre 2009

BOLLA DI SAPONE

L’alito di un bimbo sorridente nasconde un’oncia di magia. Per questo motivo prendo forma e mi sollevo, volteggio presa per mano da una brezza, mi libro nell’aria e faccio festa. Con le altre ingaggio un girotondo, l’allegra danza, e se posso mi fingo perla di luce, oppure sfera di cristallo. Sono la figlia dell’incantesimo.
Una vita effimera certo, attimi fuggenti, le risa di un bambino, il sole che mi bagna ed io che lo rifletto, tatuandomi d’arcobaleno.
E poi sempre più su, verso le nuvole. Tre, quattro cinque metri d’altezza. Guardo giù e penso: “Volo!”. Ma è solo un attimo… puff!

Aeribella Lastelle per 101 Parole - 2008

martedì 15 settembre 2009

HEI, RAGAZZO!



La serata la stavo passando insieme al Pingue, un amico di sbornie. Guardavamo la televisione del circolino, sprofondati nelle sedie di plastica, quelle economiche da giardino. Io mi sorseggiavo una china, lui un fernet. C’era il notiziario delle otto, quello dove s’inventano le notizie, per capirci. Il sapore della muratti mi aiutava a rilassarmi. Brusii confortanti dalla sala biliardo, rumori di bicchieri appena usciti dalla lavastoviglie, il calcio balilla preda di una mandria di ragazzini. Era una serata perfetta. Anche la faccia di Mimun mi divenne all’improvviso simpatica. Il mio mondo. Piccolo, per qualcuno forse squallido, ma a me piaceva. Mi sentivo a casa.
Ora, io sono un tipo parecchio tranquillo. Davvero, non farei male a una mosca. Infatti quando in estate mi entrano quei tafani in camera da letto, io non li uccido. Preferisco farli uscire dalla finestra. Mi fa senso, non so se mi spiego…
Comunque, quello che voglio dirvi è che sarei capace di bere tutta la notte e rimanere placido come una mucca indiana. Potreste prendimi in giro per delle ore, e non avreste da me la benché minima reazione. Tuttavia, succede a volte che mi prendono questi raptus. Perché c’è una cosa che non sopporto proprio; la prepotenza.
Insomma, vi dicevo. Eravamo io e il Pingue sulle sedie di plastica. Il TG era alla fine. Davano i numeri del superenalotto. Il mio amico tira fuori la schedina ed impreca un paio di volte sottovoce. Gli era entrato un misero due.
D’un tratto arriva questo qui, e senza chiedere nulla a nessuno cambia canale. “ Oh, c’è striscia…”, sussurra. Come se quelle tre parole potessero spiegare il suo gesto.
Io guardo il Pingue e il Pingue guarda me. Rimaniamo così, un fotogramma alcolico da cinquecento lire. Ah, le vecchie care lire… Intanto Greggio incomincia a sparare cazzate!
Il tipo col telecomando in mano non è piccolino. Forse trent’anni, tirato di lucido, almeno un’ora di palestra al giorno, svalvolato il giusto da quella robaccia che si rimedia da Dado, lo stronzo che fa finta di giocare a biliardo. Io non lo sopporto. L’ho visto un paio di volte avvicinarsi ai ragazzini del calcio balilla. Quelli c’hanno si o no quattordici anni. Menomale che sanno il fatto loro. Non hanno perso tempo a mandarlo a cagare.
Non conosco bene il tipo, ma l’ho visto un paio di volte bazzicare il banco del bar. Camparino corretto a gin, se non ricordo male. Gli occhi lucidi cercavano il culo della figlia di Aldo, il proprietario. Non vi mentirò. La Giorgia ha proprio un bel didietro. Comunque il suo nome non mi viene proprio, perciò mi rivolgo a lui in questo modo:
«Ehi, ragazzo! Ci rimetti il TG per piacere?»
Lui non mi guarda neanche, preso com’è dal balletto delle veline.
Il Pingue a questo punto si alza e va a prendersi un altro fernet. Appoggia il bicchiere vuoto sul tavolino davanti a me. Mi guarda. Ci siamo intesi. Anch’io voglio un’altra china. Ne avrò bisogno.
Lo sapete vero dove si serve il fernet? Li conoscete quei bicchieri, no? Sono quelli col fondale spesso. Tre o quattro centimetri di vetro smussato. Io a casa ci schiaccio le noci.
«Ehi, ragazzo! Guarda che tra poco c’è lo sport…”
Ma lui fa finta di niente. Ride all’ennesima battuta di Iacchetti. A me quello lì non mi ha mai fatto ridere. Però si tromba la bionda, perciò tanto di cappello. Davanti alla fica siamo tutti fratelli.
«Su ragazzo, passami quel telecomando!» Il tono della mia voce rimane calmo. La mucca indiana, avete presente? Ciononostante, da che mondo è mondo, più di tre avvertimenti non si danno. Ho ragione o no?
Lui intanto rimane immobile. Il sorriso ebete stampato in faccia e gli occhi sempre più lucidi. Si prende anche il tempo di accendersi una sigaretta.
Poi parte il bicchiere.
Il resto della storia? Una bellezza. Urla, imprecazioni, l’ambulanza, la polizia, che però mi conosce e conosce anche il ragazzo che non sporge denuncia, e poi la gente del circolino che è tutta dalla mia parte. Insomma, meno di un’ora dopo io e il Pingue siamo nuovamente sprofondati nelle sedie di plastica a vederci il commissario Montalbano. Accanto c’è la Giorgia, che passa il cencio sulle macchie di sangue. Il vero spettacolo della serata è sbirciarle la scollatura mentre si china in avanti.
Queste si che sono emozioni!

Gano -2008

lunedì 14 settembre 2009

IL MAESTRO DEL GIOCO

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Gió e Toby siedono sulla panchina del parco, quello vicino al fiume, quello dove c’è il mercato e la gente passa con le buste di plastica piene di ciarpame made in china. Giò e Toby fumano la sigaretta, perché ormai si può fumare solo fuori, sulle panchine d’inverno, coi guanti di lana bruciacchiati dai mozziconi. Maledette leggi antifumo!
«Ma te ci credi in Dio?» domanda improvvisamente Toby.
Gli alberi sono privi di foglie, le siepi ingiallite, l’erba smorta. Difficile parlare di Dio in queste condizioni.
«In un certo senso…» risponde Giò, sputando una nuvola di fumo.
«Come sarebbe a dire “in un certo senso”?»
«Credo al Maestro del Gioco, come posso spiegarti…»
«Il Maestro del Gioco?»
Piccioni svolazzano davanti alla panchina. Beccano a caso, si avvicinano quietamente agli stivali di Giò. Lui rimane immobile. Li osserva. Potrebbe darli un calcio ma non lo fa. Loro beccano per un po’ e poi se ne vanno. Tutto sembra avere una ragione.
«Beh, mi piace chiamarlo così. Vedi, la maggior parte delle persone crede che esisti un disegno, un progetto divino studiato nei minimi particolari. Forze della natura, energie dell’universo, un vecchio con la barba e un triangolo in testa. Non importa chi o che cosa abbia creato tutto ciò, ma di sicuro non è stato un caso.»
La pausa serve a Giò per dare enfasi a ciò che sta per dire. La rivelazione. Chi è il Maestro del Gioco?
«Beh, io credo l’esatto contrario. Non esiste equilibrio migliore di quello determinato dal caso, e siccome l’esistenza dell’intero universo si basa sull’equilibrio, sono convinto che siamo semplicemente il prodotto si una serie infinita di risultanti casuali. Il Maestro del Gioco che lancia i dadi all’infinito.»
«Suona un po’ come l’idea bislacca di un giocatore di ruolo…»
«In un certo senso.»
La panchina è dietro le bancherelle del mercato. La gente sfila in entrambi i sensi, un flusso continuo di carne e merce. Un venditore ambulante urla la sua ultima offerta, tutto a cinque euro. Gli va dietro una donna, un’urlatrice migliore, con un imperdibile tre per due. Allora Giò rincomincia a parlare.
«Se lanci cinque volte un dado potresti aspettarti di fare cinque volte sei. Se lo lanci dieci volte e hai molta fortuna potresti anche farne uscire sette o otto, o addirittura dieci. Un caso estremamente fortuito. Spesso pensiamo al caso sotto questa forma, la fortuna, la sorte. Quel tizio è morto perché così era scritto, oppure per fatalità. Se escono dieci sei consecutivi qualcuno passa col semaforo rosso e ti prende in pieno. Amen…»
Giò si accende un’altra sigaretta. Ne ha bisogno, se vuole finire di dire quello che sta per dire. Gli ingranaggi vanno oliati, a volte forzati, più spesso caricati.
«…ma se lanci quel dado un numero infinito di volte otterrai sicuramente un numero infinito di risultati differenti, da uno a sei. L’equilibrio cosmico. Il disegno del Maestro del Gioco.»
«Ma allora il libero arbitrio? L’intento dell’uomo? La spiritualità? Il cambiamento? Tutto inutile?» ribatte Toby ancora scettico.
Un vecchio passeggia con il cane. Fa una pisciatina e se ne vá. Il quadro è completo.
«Per questo credo nella filosofia dell’abbandono» decreta Giò.
«Andiamo a farci una birra?»
«Si. Questi discorsi mettono sete, non trovi?»

GM Willo - 2008

sabato 12 settembre 2009

L'UOMO NUOVO

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Rachele piange con lo sguardo rivolto ad oriente. I salici la guardano, il tempo sfuma, la morte torna ad essere un sogno.
«È tutto finito?» domanda Abel che le siede accanto.
«No amore. Questo è l’inizio…»
Rachele ha gli occhi arrossati. Non riesce a smettere. Non geme, non singhiozza. Il suo è un pianto muto, percepibile solo dai rivoli che le scendono ai lati del volto. È un pianto ossequioso, l’esternazione del dolore di un animo modesto. Rachele ha perso tutto, meno che il suo amore. Per questo piange, ma non dispera.
«Li vedi gli angeli?»
«Che volano sulla città in fiamme? Si, li vedo. Che cosa fanno?»
«Si assicurano che non rimanga in piedi nulla.» Lei continua a guardare il cielo rischiarato dalle fiamme. Lui continua a guardare il suo volto. È bellissima, pensa. E quel pensiero lo consola. Anche lui ha perso tutto.
Sul promontorio dei salici il vento porta l’acre odore della carne bruciata. Il sentiero per le montagne diparte da lì. Due giorni di cammino fino al rifugio. Lassù gli oceani non arriveranno, si augura Abel.
«Hai mai immaginato che sarebbe successo, un giorno?»
«Molte volte. Ma non ci ho mai creduto davvero…»
«Non siamo più di duecento. Perché così pochi?»
Rachele distoglie gli occhi dall’inferno. Guarda il suo amore e poi dietro, dove la fila di pellegrini procede lentamente sul sentiero. Duecento, duecentoventi al massimo, su una città di oltre due milioni di abitanti. Erano i prescelti per l’avvento dell’uomo nuovo.
«È la ragione per cui è successo. Eravamo rimasti in pochi, sani… Uno su diecimila.»
Rachele è stata avvertita dai sogni, come tutti gli altri. Ma in lei il messaggio era più forte. Continua a riversarsi nella sua testa, un fascio di tiepida luminosità che scuote e consola. È stata lei a radunare i superstiti, a mostrare loro il cammino, a dare a tutti coraggio. Ma c’è ancora tanto da fare. È solo l’inizio…
«A cosa pensi?»
«A mia madre. Ai miei fratelli. Ai miei amici. Nessuno è scampato.»
«Credo che sia così per tutti. Io e te siamo gli unici a conoscerci. Che vuol dire?»
«Che qualcosa di nuovo sta nascendo.»
Rachele smette di piangere e si tocca il ventre. Nei suoi occhi dimora una nuova vita. Alza lo sguardo verso Abel e infine sorride.
«Credimi amore, è solo l’inizio…»

GM Willo 2008

venerdì 11 settembre 2009

C'ERA UNA VOLTA...


Maddalene conserva negli occhi i sogni di suo padre. L’ha lasciata una notte d’inverno, su quella curva a gomito a poche centinaia di metri da casa. L’asfalto era bagnato. Il buio e poi la nebbia, che ricopriva ogni cosa, come la patina di povere che riveste i mobili antichi, come il tempo che si adagia sui ricordi offuscandoli, senza mai però cancellarli. Poteva andarci piano il vecchio, almeno per quella sera. Tre, forse quattro birre al pub con i vecchi amici. Non era ubriaco. Forse dannatamente sicuro di se. Pensava di conoscerla come le sue tasche quella strada. Credeva di avere il controllo dell’auto, fingendosi pilota, per una volta soltanto. Chissà cosa gli passava per la testa. Forse semplicemente la sicurezza che solo una manciata di minuti lo separavano dal caldo abbraccio di casa sua, dalle carezze di sua moglie, dal leggero e rassicurante respiro di sua figlia che dormiva. Lei lo sapeva che prima di andare a letto lui accostava l’orecchio alla porta per assicurarsi che tutto andava bene. Lo aveva sempre fatto, fin da quando era nata.
Maddalene aveva appena undici anni quando sua madre le disse che papà non sarebbe mai più ritornato. Sono passati sei lunghi inverni e da allora molto è cambiato. Aveva ceduto subito alla dilaniante necessità di conoscere quell’uomo, che ai suoi occhi era sempre stato in qualche modo sfuggente. In lui come in ogni padre vi era un lato giocoso ed uno serio. Ma nel suo sguardo dimorava qualcosa di remoto. Niente di scabroso da dover nascondere, o di bizzarro da doversi vergognare. Gli adulti la chiamavano “riservatezza”. Ma negli occhi di quell’uomo c’era di più.
Maddalene incominciò a leggere gli appunti di suo padre il giorno dopo il suo funerale. Era un pomeriggio freddo ma solare, la falsa promessa di una primavera alle porte. Invece l’inverno era appena incominciato. Lo scheletro del castagno davanti a casa ne era testimone.
Sua madre sembrava volesse mettersi alle spalle la tragedia il più in fretta possibile. Aveva riempito tre grossi scatoloni della roba del marito e li aveva sistemati nel sottoscala. In uno di questi c’erano una decina di quadernoni a copertina rigida scritti fittamente. Maddalene ne aveva afferrato uno e, senza farsi vedere dalla madre, se l’era portato in camera da letto.
Ben presto scoprì che l’unico modo per trattenere le lacrime era leggere quei quaderni. Dieci, cento, mille storie fantastiche, paesi meravigliosi, personaggi e creature straordinarie, interi universi nati dalla fantasia di quell’uomo. Chi era stato suo padre? Forse non sarebbe mai riuscita a conoscerlo veramente, ma attraverso quelle storie imparò ad amarlo in maniera molto speciale.
Oggi Maddalene conosce a memoria quei mondi. Le terre di Odyon, nei mari sperduti del sud, la principessa Rielell, cieca ma capace di leggere il cuore degli uomini, e poi Kydro il guerriero serpente, costretto a vivere lontano dalla sua gente perché considerato impuro. Decine di volte ha letto le storie di Flamal, il prigioniero del tempo, un uomo corrotto dal potere e condannato alla più crudele delle vite immortali. E poi il gigante Neir, figlio di un dio e di una prostituta, caduto sull’isola di Maroi per riportare alla ragione i suoi abitanti, corrosi dall’intolleranza e dal dogmatismo. E infine la splendida Aicella, strega e sacerdotessa del tempio di Caralla, figlia del mago Sokris e acerrima nemica di Tasamo il mezzosangue, un uomo che dal dolore è riuscito ad attingere solo crudeltà. E in ogni storia dimora un protagonista, un uomo dalle molte facce, che si aggira intrepido nelle terre di sogno. Il suo nome peró è uno solo, Argodar, e senza spiegarsi il motivo Maddalen riconosce in lui suo padre. Leggere le sue avventure è come essergli accanto.
Sono passati sei anni dalla sua morte. Il dolore non scompare, ma si traveste. A volte il travestimento può bastare. S’impara a conviverci.
Maddalene coltiva un sogno nel suo cuore; rendere partecipi di queste storie altri bambini. Siede davanti allo schermo del suo computer. Il cursore lampeggia in alto, scandendo una misura del tempo tutta sua. Secondi, ore, ere geologiche…
Maddalene tira un sospiro, ed è come un tuffo nel vuoto. Le dita sopra la tastiera. Tre parole per iniziare…
“C’era una volta…”.

Aeribella Lastelle - 2008

giovedì 10 settembre 2009

IL TRAMONTO DI L.R.














Nell’ingorgo delle sei un taxi arranca con abili giochi di frizione, mentre i maliziosi semafori, scattando come al solito all’ultimo istante, si fanno beffe dei piloti esasperati. In quell’ora fatale i viali si fanno un paesaggio alieno, condizione abituale, tram-tram, ma dietro a un tale pretesto di normale routine, si nasconde la cruda natura della visione, una verità intollerabile di nome CAOS.
Schiere mai precise di autovetture si scaricano veleno addosso, ma i finestrini ben chiusi fanno si che i passeggeri non si rendano conto di quel che accade fuori. E di pedoni nemmeno l’ombra, o forse, nascosti dagli aliti immondi dei tubi di scarico, si muovono sui marciapiedi con estrema lentezza, quali invisibili zombi; ma dopo tutto ogni cosa si rivela lenta in un mondo fatto per esser veloce.
All’interno di ogni vettura vi si scopre un mondo differente, distante dagli altri tanto quanto lo sono invero nell’universo, laggiù nei viali lattei della nostra cara civiltà. E dentro gli angusti ambienti, dove i pensieri trapassano nella tremenda agonia del soffocamento, le parole non sono altro che ottuse libellule che, nel voler volare oltre i finestrini serrati, si schiantano sulla dura realtà e lasciano un alone fastidioso che la ventilazione dell’auto asciugherà in breve tempo.
Sul sedile posteriore del taxi siede L.R., trentacinquenne impiegato, costretto al mezzo pubblico perché la sua auto e’ in garage (problema tecnico). L’ingorgo, le grigie strade, i pedoni fantasma, sono tutte visioni familiari per lui, o almeno dovrebbero dato che si trova costretto ad affrontarle ogni giorno. Ma oggi ha l’occasione forse irripetibile di osservare quell’avverso paesaggio da comodo passeggero di un taxi e non da irrequieto guidatore prigioniero del traffico.
Ma i suoi pensieri al momento sono intenti a prendere in esame la sua insipida giornata lavorativa, una giornata come tante altre che da un tempo ormai indefinibile si susseguono e che con molta probabilità continueranno a susseguirsi. Procedure, formule, programmi, appuntamenti, chiamate, un mondo di parole astratte lo travolgono ogni giorno al di là della sua scrivania, una prigione di convenienza alla quale è obbligato da una condanna di buoni consigli. Quanta razionalità in quelle buone parole dette da chi (dice che) il mondo lo ha potuto conoscere, dispensatori di allettanti suggerimenti, concessori di spassionati pareri, sublimi mentori, giudiziosi ambasciatori, ognuno casualmente pronto e disponibile a ricoprirti di vantaggiosi artifici, per lasciarti poi credere a quelle insensate parole evocate per recluderti in un sistema quanto meno falso. Poco e’ bastato perché un tale disegno rivelatore venisse evocato d’improvviso da una mente per un attimo libera dalle catene della routine. Solamente un giorno da passeggero e non da pilota e gli occhi inconsciamente velati di L.R. hanno spaziato lo sguardo su un’amara verità, e non solo…
…e’ il tramonto e l’occhio arancione rapisce l’attenzione del passeggero. Densi colori di fuoco pitturano un fazzoletto di orizzonte e tra due giganteschi edifici il sole si scopre palla da golf che centra la buca. Ma ogni pennellata di arancio, di azzurro, di indaco, di violetto, di vermiglione e degli altri infiniti, pare viziata da un agente esterno, che ne risalta le suggestive sfumature a discapito forse di una realtà più modesta.
Da un ricordo del passato, un remoto tramonto compagno delle sue più care memorie, il passeggero quasi involontariamente si accorge della stranezza, e indovina la causa di quell’atmosfera vespertina così artificiale; lo smog. Certo, un’intuizione ovvia, ma lo e’ veramente per un soggetto quale L.R.?
La visione infuocata dura solamente qualche minuto finché il taxi, sempre arrancando, si nasconde dietro uno dei due imponenti edifici. Ma quel breve momento e’ sufficiente per costringere la mente del passeggero a idealizzare un possibile confronto, la rivelazione di un ovvia comunione tra la sua vita irreale e quel falso tramonto.
E come il veleno degli scarichi è già penetrato nelle vene degli orizzonti cittadini inquinandone ogni tramonto, anche la droga-routine si e’ ormai iniettata in lui, recludendo la sua vita in una prigione di parole senza significato.
“Ma per fortuna si e’ passeggeri solo raramente” e’ il suo ultimo pensiero prima di pagare il conducente e scendere dal taxi.

GM Willo - 1996