giovedì 7 febbraio 2013

LA LISTA DELLA SPESA



La velocità con cui Sabrina muove le sue dita smaltate sulla tastiera digitale del suo smartphone ha dell'incredibile. Ha polpastrelli leggeri, falangi affusolate, la pelle tesa e rosea da adolescente, e nonostante i quindici millimetri abbondanti di unghie perfette, sfiora con sicurezza le lettere del quadro, mozzando le parole di tanto in tanto, come vuole il costume della new generation. Lei è sdraiata sul divano, la schiena appoggiata su una montagna di cuscini, mentre io sono in cucina che la guardo, mentre sbatto delle uova in una ciotola.
- Ti va la frittata?
- Eh?
Non mi ha sentito. È completamente assorbita dalle sue chat multiple. Sorrido, perché la capisco... e forse un giorno capirà anche lei.
- Dicevo, ti va una frittata?
- Si, okay papà...
Com'è che è cresciuta così in fretta? La domanda me la pongo ormai ogni giorno. È una domanda che mi fa sentire sciocco, ma che non posso fare a meno di chiedermi. Un giorno è in camera sua circondata dalle Wings, e il giorno dopo la vedo mano nella mano con Gabriele, il suo primo ragazzo. Tutto regolare, come da copione.
L'uovo sfrigola nella padella... ci ho aggiunto anche delle strisce di prosciutto, poi spolvero un po' di parmigiano...
- Dai, vieni che è pronta...
Lei si siede davanti a me e tiene ancora in mano il suo telefonino.
- Che ne dici di concederci dieci minuti senza tecnologia, solo noi due e la frittata? - propongo, guardandola con un sorriso.
- Si, aspetta che saluto Gabri... - E si mette a scegliere l'emoticon più adatta; un orsacchiotto pronto all'abbraccio.
Il pranzo del giovedì lo passiamo sempre insieme. Lei esce prima da scuola, il piccolo Samuele fa il tempo pieno ed io ho il mio giorno libero; così vuole la routine, e a me la cosa piace da matti.
- Ti ricordi vero che devi andare a prendere Samuele nel pomeriggio. Mamma è in palestra fino alle cinque...
- Si, certo... tranquillo...
- Beh, lo sai che sono sempre tranquillo...
- Anche troppo direi...
Sorrido, lei sorride, il sole entra con forza dalla finestra e la primavera è a meno di una settimana da noi. Il quadro è praticamente idilliaco...
- Senti, ma te e mamma... insomma... quando vi siete accorti di essere innamorati?
La domanda è inaspettata, ma da un po' di tempo non ho più bisogno di pensare alle giuste risposte. Mi vengono alla bocca da sole. Dev'essere per via della quiete...
- Beh, quasi subito... un paio di settimane credo...
- Ah... e quindi sapevate già che eravate fatti l'una per l'altra...
- Oh, certamente... lo credevamo con tutti noi stessi...
- Davvero?
- Certo... ma avevamo torto, ovviamente.
Lei mi guarda arricciando le sopracciglia. Crede che stia scherzando, ma io sorrido sornione... la voglio prendere al l'amo questa volta.
- Che vuoi dire?
- Vedi, bisogna fare una bella distinzione tra l'innamoramento e il vero amore. In realtà si trovano agli opposti...
- Ovvero?
- Di solito è proprio quando ti disinnamori di qualcuno che hai la grande opportunità di sapere che cos'è il vero amore. Il passaggio in realtà è quasi obbligato. Prima ti innamori, poi la passione finisce e finalmente vedi l'altro per quello che è in realtà, non più il mezzo per soddisfare i tuoi desideri, ma la persona che è. E amare significa proprio questo: vedere la realtà.
- Non credo di aver capito...
- Ma certo che no... Vedi, si dice che l'amore sia cieco. In realtà è l'innamoramento che è cieco, mentre l'amore ci vede benissimo...
- Ma quando la passione finisce l'amore finisce... non è così?
- No, subentra semplicemente un nuovo desiderio da colmare, e quando lasci che la tua felicità dipenda dal soddisfacimento dei tuoi desideri, questi diventano la tua droga.
- Scusa, ma che c'è di male ad innamorasi? Ad esempio, Gabriele è davvero fantastico, te lo conosci ormai... è simpatico, tranquillo, non si monta la testa come tanti cretini, e poi è un sognatore... te stravedi per i sognatori...
- Lo sai cosa hai appena fatto? Hai illustrato la tua lista per la spesa...
- Cosa?
- Simpatico, tranquillo, umile, sognatore... questa è la tua lista per la spesa. Esci la mattina, vai a scuola, chiacchieri con gli amici, e se trovi qualcuno che soddisfa la tua lista (e magari è anche carino), allora ecco che te ne innamori. Però il tempo passa, le persone cambiano, ma soprattutto i desideri, ovvero le liste per la spesa, cambiano, e dopo un po' vedi quella persona che credevi Mister Perfect per quello che è in realtà. E quello è il vero amore.
- Quindi secondo te per amare realmente Gabri dovrei disinnamorarmi?
- Beh, più o meno...
Lei mi guarda con due occhioni carichi di mascara. So esattamente cosa sta pensando: “papà, smettila di dire cavolate!!!” Allora sorrido e le dico: - Finisci la frittata e non ci pensare. Ne avrai di tempo per capire...

lunedì 20 settembre 2010

PESCAIA SULL'ARNO

















A volte vengo quaggiù, quando le cose non vanno per il verso giusto. Ci arrivo per una stradina che passa sotto la ferrovia, poi attraverso il tennis club, un cancellino di legno e un sentiero che scende giù dall'argine. In estate è molto bello qui, ma dopo le dieci incomincia a fare troppo caldo. Di solito sono qui alle nove, dopo il caffè. Mi fumo una sigaretta, mi siedo sulle rocce e mi perdo nei baluginii del fiume. I riflessi accecanti del sole mi distraggono dai miei guai.
Non volevo dimostrare niente a nessuno, mi sono detto, ma mentivo. Ho lavorato quindici anni sottoposto dando sempre il meglio di me, ma se ne sono accorti in pochi. Con la scusa del destino si fanno le scelte più strampalate. Sono i film americani che ci fanno sognare, che ci fanno sentire monchi senza i sogni, ma per ogni sogno realizzato ve ne sono mille che vanno in fumo. Un gioco d'azzardo, ecco che cos'è questa vita...
L'azienda è stata il buco nell'acqua più grosso, ma ormai il peggio è passato, sono rimasti solo gli strascichi del fallimento. Anche i creditori se ne stanno facendo una ragione. Mi hanno preso tutto, che non era molto, ma era comunque tutto quello che avevo. Il problema è solo uno: ripartire. Gli amici mi dicono che sono ancora giovane, ma non è facile a quarantacinque anni e con la crisi in corso. Preferisco venire giù in pescaia che prendere l'autobus per andare all'ufficio di collocamento. Quando sono qui spengo anche il telefonino. Di colpo mi sento irraggiungibile, come un palloncino nel vento. Libero? Si, forse è proprio così che mi sento.
L'impatto con la natura ti richiama alla realtà, quella vera, non quella fatta di strade e di palazzi. Non le bollette da pagare, l'assicurazione dell'auto o l'affitto. Quelli sono solo specchietti per le allodole. La realtà è qui, nel gorgoglio di un rigagnolo che si getta nel grande fiume, nello scintillio del dorso di una nutria che appare d'improvviso sulla superficie dell'acqua, nei frinii delle cicale sugli alberi. L'asfalto della città ci nasconde la verità. Ecco perché vengo quaggiù quando le cose non vanno per il verso giusto, ma appena la sigaretta finisce mi prende sempre una strana inquietudine. Così mi metto a cercare delle pietre piatte da far rimbalzare sull'acqua. Vado avanti finché ne trovo, poi mi decido a risalire verso casa.
L'inganno ha molti veli. Scostare il primo è roba da ragazzi, rimuoverli tutti è il segreto di una vita.

sabato 28 agosto 2010

IL FARO


Quel sabato pomeriggio presi la macchina e andai al faro. Non sapevo che mi ero diretto laggiù fino a quando non lo vidi spuntare da dietro la collina. Gli eventi più recenti avevano innescato il pilota automatico, un sistema difensivo notevole se si pensa a quanta gente distratta circola per le strade oggigiorno. Ma col pilota automatico inserito puoi fare chilometri ad andatura lenta, con la radio in sottofondo che ti sputa addosso i vecchi pezzi di Sanremo, e star sicuro che non ti succederà niente. Parcheggiai, spensi il motore e rimasi fermo dentro l'abitacolo ad osservare il faro. Era la volta dei Matia Bazar, così lasciai finire la canzone per prendere tempo. Non avevo la minima idea di quello che avrei fatto.

Era finita? Non era finita? Chi poteva dirlo. Claudia mi aveva detto che non mi voleva più vedere, ma chissà che cosa voleva dire in realtà. Le donne parlano con la pancia, un linguaggio adatto a chi ascolta con il cuore, ed io per troppo tempo ho ascoltato solo con le mie orecchie. È più facile imparare che disimparare, cantava Paul Simon...

Al faro ci andammo la scorsa primavera. Fu bello perché c'era un vento terribile e sulla spiaggia eravamo solo noi e due ragazzi che cercavano inutilmente di far volare un'aquilone, ma con quel maestrale non c'era proprio verso. Lei si stringeva nel giacchetto di pelle mentre io mi facevo spettinare la chioma e annusavo il sale. Parlammo poco, ascoltammo il vento, poi andammo a prendere un caffè al bar del paese. “C'è un albergo nei dintorni?” domandai al barista. Lui m'indicò la strada per la statale e disse che ad appena dieci minuti c'era l'Hotel Faro, ovviamente. Passammo la notte laggiù, e il vento si trasformò in tempesta, e la tempesta ci fece amare più del solito.

I Matia Bazar lasciarono il posto a Ron. Mi decisi a spegnere la radio e fare due passi. Anche quel giorno c'era poca gente sulla spiaggia, benché si stesse bene al sole, ma era ormai novembre e la bella stagione era solo un ricordo. C'era anche il vento, ma era diverso, non come quello di qualche mese prima. Era un vento più freddo, più cattivo, il promemoria dell'inverno alle porte.

Mi accesi una sigaretta. Era la prima in un mese. Non che avessi smesso di fumare, è che io fumo così, quando mi va. A volte mi finisco un pacchetto in una sera e poi faccio passare una settimana prima di riaccenderne una. Non ho mai sofferto la dipendenza da nicotina. Non mi piace essere dipendente da qualcosa o da qualcuno. Forse era proprio per questo motivo che Claudia non voleva più vedermi.

Mi avvicinai al faro fino a una staccionata di legno che ne delimitava la proprietà. Mi ci appoggiai e finii la sigaretta. All'orizzonte un peschereccio seguiva lentamente una barca a vela. I gabbiani volteggiavano nel cielo in disegni random.
Perché sentiamo il bisogno di dare un significato ai luoghi? Forse perché li infestiamo con i nostri spettri... Il fantasma del mio amore per Claudia fluttuava dietro una feritoia del faro. Non mi girai a guardarlo, ma sapevo che era lì. Il cellulare vibrò nella tasca dei miei jeans avvertendomi di un sms. “Ti odio!” c'era scritto. Fu allora che capii. Poi le lacrime iniziarono a rigarmi le guance ed il vento non riuscì ad asciugarmele.

domenica 1 agosto 2010

IL RISVEGLIO



di GM Willo e Morgendurf

Dm-.à/&00kPr 2OProvòP=?rova Prova... ecco, forse ci siamo. Ci riesco. Riesco a formare i caratteri sullo schermo proiettando la mente fuori dal mio corpo. Non so come sia possibile, ma è esattamente così. Se mi state leggendo, sappiate che il mio nome è Libero Valenti, che sono in stato vegetativo da oltre quindici anni e che mi trovo nella mia stanza da letto in un appartamento alla periferia di Roma. Avevo trentasette anni quando un furgone della Iveco si dimenticò di darmi la precedenza e mi scaraventò insieme alla bicicletta sul freddo asfalto del marciapiede. La mia testa andò a colpire il lampione d'acciaio e le luci si spensero. Sono rimaste spente per quindici lunghi anni, ma se guardo indietro mi sembrano trascorsi solo alcuni frammenti di secondo. Ricordo benissimo le carezze del vento d'aprile sulla pelle, mentre pedalavo verso casa. All'epoca la mia famiglia abitava vicino al centro. Ne è passato di tempo, eppure mia moglie mi tiene ancora vicino, e i miei figli ormai grandi si affacciano ogni tanto dalla porta della mia camera, che per buona parte è invasa dagli strani macchinari che mi tengono in vita, e mi sorridono riconoscendomi a stento. Erano solo dei bambini all'epoca dell'incidente.
Ma non voglio divagare. Non so per quanto tempo mi sarà concesso questo dono. Credo anzi che questo mio parziale risveglio sia il segno della tanto agognata morte. Ma c'è un motivo se questi poteri sono venuti a me. Ho un destino da compiere, ed è anche quello di raccontarvi questa storia.
Le prime immagini mi sono arrivate tre giorni fa, o così credo. Difficile immaginarsi lo scorrere del tempo in questa mia condizione. Ma le scene che mi arrivavano provenivano dall'esterno, e dai primi flashback fino a adesso sono riuscito a contare due notti e tre giorni. Da quel momento, l'istante del mio bizzarro risveglio, le mie percezioni sono diventate più forti e precise. Il monitor alla mia destra non rileva alcuna attività celebrale, e la scatoletta dentro la quale sono rinchiuso è completamente fuori controllo. Non riesco neanche a muovere una palpebra. Eppure posso proiettare la mia vista fuori da questa stanza, addirittura oltre la finestra e fin dentro alle case dei vicini e al parco sei piani più sotto. Insieme alla vista sono riuscito ad affinare anche l'udito, e adesso sono addirittura capace di inviare degli impulsi al portatile di mia moglie, che giace acceso sul tavolo del salotto. Lei è uscita per delle commissioni e si è dimenticata di spegnerlo. Ma non ho molto tempo. Devo raccontare...
E non vi racconto di come sto qui disteso, quello lo sanno tutti, basta venire qui o leggere i giornali, ci sono state persone più famose di me che hanno passato quello che sto passando io e ne hanno parlato e sparlato, per cui tutti sapete come ci si possa trovare in questa situazione. Ma è una cosa strana, assurda, quella che mi è accaduta, e non voglio che nessuno lo sappia, perché farebbe di me un caso scientifico: mi trasferirebbero in un centro per studiarmi, scandagliarmi, provare su di me farmaci, non voglio che qualcuno strumentalizzi questa mia condizione per un suo tornaconto. Tutto sommato, mi trovo qui segregato da un tempo infinito, schiavo di tutto e di tutti per poter vivere, e adesso invece sono nella totale libertà di esprimermi come meglio credo, scevro da imposizioni e condizionamenti. In queste lunghe ore ho ascoltato i racconti di tutti, da quelli dei miei familiari, a quelli dei vicini di casa, del pizzicagnolo qui sotto, del farmacista all’angolo. Quello che dicono le donne da Bruno, il parrucchiere, farebbe venire i capelli dritti ai loro mariti, o forse glieli farebbero cadere, tanto, il resto, è già caduto, decaduto, decomposto. Incredibile, riesco anche ad essere ironico.
Ma quello che mi ha letteralmente spiazzato, al di là di ascoltare le voci, i suoni, i rumori, di sentire l’odore del ragù o delle verze in padella, è di riuscire anche a captare i pensieri delle persone. Ciò che ho scoperto è qualcosa di sorprendente, sconvolgente, a volte. Sono riuscito anche a sentire i pensieri di mia moglie. Oh, sì, mi vuole bene, come lo si vorrebbe ad un fratello, è una sorta di vedova bianca agli occhi di tutti, parenti, amici, condomini. Giusto ieri sera l’ho beccata che pensava a Guido. Chi è Guido?
Beh, il destino ha proprio il senso dell'umorismo...
Guido è il proprietario del furgoncino dell'Iveco, proprio quello che mi ha messo in questa situazione. Certo, il furgoncino non c'è l'ha più. Adesso viaggia su una Focus di seconda mano, non fa più il corriere ed ha aperto invece una piccola mesticheria, perché era il suo sogno. Gli affari non vanno benissimo ma a lui non importa, perché è una persona che si accontenta di poco. Come faccio a saperlo? Facile, viene da me ogni giorno, subito dopo aver chiuso il negozio, e in quindici anni non è mai mancato, se non quando stava davvero male. Si siede al bordo del letto, chiede a mia moglie di lasciare la stanza e mi racconta della sua giornata, che immagino sia più o meno sempre la stessa. In definitiva l'ho ascoltato solamente due volte, ovvero da quando mi sono risvegliato. Però so che è così, perché gliel'ho letto negli occhi o nella testa. Forse un tempo era il senso di colpa che lo portava a compiere questo rituale, ma dopo tutti questi anni ormai quello non esiste più. Le sue visite fanno semplicemente parte della sua compulsiva quotidianità. L'incidente lo ha reso più infermo di me. Si è escluso tutto nella vita, l'amore, il successo, il piacere, con la scusa della mesticheria. A volte la vita è proprio strana...
Talmente strana che chi mi stava per ammazzare, fa parte della mia vita, della mia famiglia. In effetti lui mi ha ucciso perché, se anche il mio cuore pulsa, io non sono vivo come lui, come tutti. La mia non è vita. Io non corro, non rido, non piango, non scopo. Proprio ieri sera ci pensavo, a quanto mi piaceva scopare. Vabbè, mi piacevano talmente tante cose che ora non faccio più, una più una meno, non mi cambia la vita. E dai, sempre questa parola che torna, che ricorre, che ripeto, che mi ripetono, che sento dire, che ascolto. Vita.
Comunque si è creata una situazione buffa, che ha qualcosa di grottesco. Guido, alla fine, diverrà mio consuocero. Già, perché sua figlia, fra qualche mese, si sposerà col maggiore dei miei. Ho anche scoperto che è incinta; lei ed io siamo gli unici a saperlo. Dai, non chiedetevi come è successo, conoscete già la risposta. Diventerò nonno.
Così la mia vita, interrotta tanti anni fa, continuerà, tramite mio figlio, con lei ed in lei. Ma sì, ha già deciso il nome, si chiamerà come me, ed è sicura che sarà un maschio. Quando l’ho saputo, mi sono gasato. Piccole soddisfazioni.
Guido, tutto sommato, è un brav’uomo. Il giorno dell’incidente la moglie gli aveva annunciato che lo avrebbe lasciato, per andare a vivere con un tizio, molto più vecchio di lui, ma pieno di soldi. Per non fargli sentire la solitudine, così gli disse, gli aveva lasciato anche i figli, un maschio ed una femmina. Quando gliel'ho letto dentro mi è venuta in mente solo una parola: troia, nel senso più spregiativo del termine. Era sconvolto: normale che non mi abbia visto in tempo, che non sia riuscito a frenare.
Strano, ma non riesco a provare né odio né rancore per Guido. Anche se mia moglie pensa a lui in termini non propriamente innocenti, diciamo così. Tra di loro non c’è nulla, questo è certo, ma anche se ci fosse non mi dispiacerebbe. E, se per assurdo, dopo un matrimonio ve ne fosse un altro? Pensate che bello, una famiglia allargata, tutti attorno a me, ad accudirmi, a coccolarmi.
Che stupido sono: se vi fosse un secondo matrimonio, io non potrei parteciparvi in alcun modo. Anche mia moglie è prigioniera, ma in maniera diversa; né del letto come me, né del senso di colpa come Guido. È prigioniera dei suoi principi. Non si concederebbe mai se mi sapesse ancora vivo. I principi sono una bella cosa, ma la gente pensa che debbano essere irremovibili, come le colonne di granito che sostengono gli antichi templi. Se ne rompi una crolla tutto. Invece il tempio dovrebbe essere qualcosa di mutevole, aperto ai cambiamenti.
Questo strano risveglio mi ha permesso di vedere le cose come stanno. La mia infermità è un ceppo che imprigiona molte vite. È arrivato il tempo di staccare la spina. Eh già, perché se riesco a mandare impulsi al computer per formare questi caratteri, dovrei anche essere capace di spegnere quella maledetta macchina che mi ronza accanto. Proviamoci, allora...
Un saluto a tutti, dal vostro amato Libero, di nome e presto anche di fatto.

sabato 13 febbraio 2010

RADIO BLUES

RADIO BLUES

La radio sta andando con un mood lento, da estate, perché fuori non tira un alito di vento ed è pieno di dannati moscerini. É rimasta solo lei a raccontarmi le storie, vecchia scatola nera con l’antenna rotta, riesci ancora a prendere quella stazione blues, e chissà perché continua a trasmettere. Ma quanti ubriaconi come me vivono in questa maledetta città, e ascoltano vecchi pezzi di Tom Waits e dei primi Deep Purple? Quanti?
Lei se n’é andata. É già passata una settimana e non accenna a piovere. La pioggia fa cambiare gli odori, sapete? Non sopporto più di sentire il suo profumo dappertutto, in camera, in salotto, in auto, persino nello scantinato, tra gli scatoloni ammuffiti e la catasta di legna per il camino.
Ve lo dico subito, così evito di prendervi per il culo; la colpa é solo mia. Quando sei lì con una birra di troppo nello stomaco e una perfetta sconosciuta che ti apre le gambe, se sei un vero uomo non ci capisci più niente. Non sai più distinguere il giusto dallo sbagliato. La vista ti s’annebbia, il male diventa bene, il bene diventa roba per poppanti, e il passato, i ricordi, i sacrifici e le meraviglie della vita di coppia, tutto questo diventa un’accozzaglia di colori sfumati, un’immagine poco chiara, come uno di quegli assurdi quadri moderni che piacciono così tanto ai ricchi. No, non sto cercando scusanti. Sto solo temporeggiando per vedere se finalmente questo tempo si decide a cambiare. Sento dei brontolii nella distanza, forse la tempesta é vicina, forse l’odore cambierà... forse.
Lee Hooker farfuglia di una donna che lo fregherà, e come lo capisco, in questo istante ti sono proprio vicino Johnny, vai, continua a strimpellare quelle corde e cantamela, cantagliela a quelle nuvole ancora troppo lontane, oltre le colline, le colline che abbiamo percorso in lungo e in largo, io e lei sul vecchio chopper. Cristo, perché te ne sei andata! Potevamo parlarne, potevamo passare anche questa, come ne abbiamo passate tante...
Il problema é che ne abbiamo parlato anche troppo, e quando non c’é più da parlare non ti rimane altro che bere. Bere, scrivere e ascoltare vecchi pezzi blues.
Ci siamo conosciuti a un rave per motociclisti nel lontano ’87. Ventidue anni insieme, ve ne rendete conto? Lei c’aveva due trecce platinate, sembrava uscita da una favola dei fratelli Grimm, io invece a quel tempo ero ancora in forma, maglietta dei Motorhead e coda di cavallo, nera come il velluto. Oggi non posso dire altrettanto; il ventre ha risentito dei fiumi di birra passati e il crine si schiarito per l’età e ingiallito per le cicche. Però mi ritengo ancora un bel figliolo, altrimenti la rossa di l’altra sera non si sarebbe avventata così famelicamente sui mie calzoni. Maledetta rossa!
Era davvero bellissima la mia piccola. Le offrii la boccia di Jack e ce l’andammo a bere defilati, mentre il povero Ben Scott, pace all’anima sua, urlava dalle casse dell’apparecchio stereo. Al rave ci saranno state più di cento persone, ma era come se fossimo soli. Lei c’era venuta col suo ragazzo, ma quando mi vide lo mollò su due piedi. Ce ne tornammo a casa sulla mia prima Harley, forse il mio unico amore.
Cavolo, questi ricordi fanno troppo male, ma sono esattamente le scuse che cerco per versarmi un altro bicchiere. Tanto la radio continua il suo blues ed io per oggi non ho niente da fare. Anzi, per la verità la casa senza di lei é diventata un tugurio, avrei da fare la lavatrice, rimettere a posto la camera, lavare i piatti di tre giorni, ma non riesco proprio a muovermi da questo dannato divano, lo stesso su cui abbiamo fatto l’amore cento, forse mille volte. JD é quasi alla fine e incomincio a vedere storto, come quella sera balorda insieme alla rossa. Cacchio, ci mancava solo quel Bowie con la vocina stridula che mi racconta dei ragni marziani. Ma aspetta, forse aiuta... Le nuvole sono più vicine adesso.... ma si, é la radio, é come la danza della pioggia, quella degli indiani d’america, é la stessa cosa... forse se alzo il volume....
Goccioloni grandi come sassi battono il tempo insieme al vecchio Bob Dylan. Ci voleva proprio lui per far piovere. Ecco, l’odore é già cambiato, finalmente. Mi finisco il Jack e poi vado fuori a farmi lavare via la tristezza. Mi é tornato il buonumore, e se mi prende bene stasera scendo al bar per vedere se ribecco la rossa...
....perché il lato positivo di ogni brutta storia é che la storia può sempre cambiare.

GM Willo - 2009

lunedì 1 febbraio 2010

LA LIBERTÁ DELL'UOMO

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Il monaco, immobile sul grande macigno, osservava le ombre allungarsi, e pensava che niente e nessuno le avrebbe mai potute fermare. Allora sentì l’impulso di chiedere consiglio al suo Maestro. Entrò nel tempio e lo vide in un angolo a pregare. Non dovette disturbarlo, perché sapeva già che sarebbe venuto. L’adepto si accomodò accanto a lui e chiese: «Maestro, quanto è libero un uomo? Lo è totalmente oppure esistono delle limitazioni? È possibile che qualcosa come il destino limiti la nostra libertà?»
Il Maestro rispose alla sua maniera, non con la logica di pensiero ma con un esempio esistenziale. Disse: «Alzati, figliolo.»
Per un momento l’adepto pensò che quella non fosse assolutamente la risposta che cercava, ma frenò l’impulso di credere che il Maestro si stesse prendendo gioco di lui. Così si alzò in piedi ed attese.
Il Maestro disse: «Adesso solleva una gamba.»
“Che diamine significa?” pensò l’adepto. “Ha forse perso la ragione o non sono stato abbastanza chiaro?” ma tutte queste cose il giovane monaco non le condivise col suo Maestro, e per non mancargli di rispetto alzò una gamba e rimase in equilibrio sull’altra.
«Benissimo» dichiarò il Maestro. «Un’ultima cosa adesso. Solleva anche l’altra gamba.»
«Ma è impossibile!» protestò subito l’adepto. «Ciò che mi stai chiedendo è assolutamente irrealizzabile! Ho già la mia gamba destra alzata, e non mi è possibile sollevare anche quella sinistra.»
Allora il Maestro rispose: «Eppure eri libero. Avresti potuto sollevare la gamba sinistra per prima, e nessuno ti avrebbe detto nulla. Eri completamente libero di scegliere la gamba che preferivi. Non ho detto niente a riguardo, e tu hai preso una decisione: hai alzato quella destra, ma facendo questa scelta, ti sei precluso la possibilità di sollevare quella sinistra.»
Il Maestro guardò il giovane con una luce d’amore negli occhi.
«Non preoccuparti del destino, figliolo. Pensa sempre con semplicità.»
Fuori dal tempio le ombre erano già padrone.

GM Willo – Adattando una storia anonima.

martedì 5 gennaio 2010

IL CUOCO DEL PRESIDENTE

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Antipasto di mare caldo, con fasolari e vongole veraci, linguine all’astice accompagnate da un Fiano, e poi sua maestà il branzino, al cartoccio, come si conviene per le occasioni speciali. Ci si sposta su una Vernaccia di Oristano, da assaporare con la bottarga e del formaggio sardo. Il pranzo è quasi alla fine, i clienti sembrano soddisfatti. Lui ride, chiacchiera, si pavoneggia a capotavola col bicchiere in mano. Politico, industriale, leader, presidente. È a lui che dedico questo pregiato buffet.
I ragazzi lavorano veloci, eseguono alla perfezione ogni mia richiesta, nell’angusta cucina del palazzo, sotto la sala dei ricevimenti. Tra i fumi delle acque a bollore e i cozzi quasi musicali dei pentolami, quattro uomini vestiti di bianco danzano attorno ai piatti. Pinguini entrano ed escono con le portate. La concentrazione è tutto. “Vieni qui quel con quel vassoio!” Un ritocco e poi via, sennò si raffredda.
In cucina tutto ha un ordine preciso, i cuochi ruotano attorno al cibo come satelliti attorno a un pianeta. Orbite più o meno circolari che richiamano alla mente le perfezioni dell’universo. Pesci cadaveri santificati al dio del palato. Tutto ciò mi delizia.
Il presidente non ha assolutamente nessuna idea di quel che avviene tra queste quattro mura. Sono anni che invita i suoi amici, che si pavoneggia vezzeggiando i suoi lussi, cucina compresa, ma non è mai sceso a dirci una parola, a farci partecipi del successo. Paga bene, certo, ma non è tutto. I soldi non sono mai tutto…
Nel pesce l’arsenico ci sta una meraviglia. Ci va a braccetto, come l’alloro coi fegatini di maiale, come una spruzzata di pepe nero sulla volgare carbonara. Era da tanto tempo che gli volevo preparare questo piatto…
Ecco, arrivano le prime urla. I ragazzi sono usciti in fretta e furia dalle cucine. Vogliono sapere cosa sta succedendo, perché i camerieri sono così agitati, come mai si sentono dei tonfi sordi dal piano di sopra. Glielo potrei dire io, ma non mi vá. Voglio godermi per un po’ le mie stanze. Non le vedrò per un bel po’ di tempo. Chissà se mi faranno cuoco, laggiù dove sarò costretto a passare il resto della mia vita…
Alzo la coppa di vernaccia. Un goccio me la sono lasciata per questo brindisi speciale. “A te, mio caro presidente. Spero ti sia piaciuto il branzino… Addio!” Appoggio la bocca al bordo del bicchiere, le urla si fanno più distinte, qualcuno scende le scale, sta per venire a chiedermi spiegazioni. Inarco la coppa, mi bagno le labbra, poi butto tutto giù d’un fiato. Che buono!
- Il presidente! Hanno avvelenato il presidente!! -
Mentre la notizia incomincia a circolare, e le guardie del corpo irrompono nella cucina, un ultimo pensiero mi passa per la testa, un piccolo rammarico. Non aver avuto il tempo di servire il dolce: un millefoglie da urlo!

GM Willo - 2008